Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
PASSATO IMBARAZZANTE

Rivoluzione iraniana, madre di tutti gli errori occidentali

L’11 febbraio l’Iran ha celebrato il 40mo anniversario della rivoluzione contro lo Shah. Il 12 febbraio tornò Khomeini. Di lì a pochissimo, l'Iran divenne una Repubblica Islamica. Manca un dettaglio in questa narrazione: l'appoggio di Carter a Khomeini. Masochismo o strabismo? Fu un errore ricorrente, perché anche Obama, in Egitto...

"SALAFITI" di Lorenza Formicola

Esteri 13_02_2019
Uno dei celebri graffiti sul muro dell'ambasciata Usa a Teheran

L’11 febbraio l’Iran ha celebrato una delle sue più importanti feste nazionali: il 40mo anniversario della vittoria della rivoluzione contro lo Shah. Il giorno successivo, ieri per chi legge, ha festeggiato un altro anniversario importantissimo: il ritorno in patria di Ruhollah Khomeini, che di lì a poco sarebbe diventato il primo ayatollah (guida suprema) della Repubblica Islamica. Questi due giorni segnano la brevissima parabola della democrazia iraniana: dalla speranza scaturita dalla cacciata dello Shah, Reza Pahlavi, ultimo monarca persiano, all’islamizzazione della repubblica, il passo è stato brevissimo. In mezzo ai due fenomeni, come grimaldello rivoluzionario per far saltare l’ordine costituito, si è inserito anche il terzo episodio di cui cade il quarantesimo anniversario: la cattura dell’ambasciata degli Stati Uniti e la presa in ostaggio del suo personale, una tragedia durata più di un anno, un fallimento per gli Usa, l’inizio del lungo odio di regime per gli Stati Uniti, accusati da Khomeini di essere il “grande Satana” nel mondo. Eppure, nel raccontare la genesi della rivoluzione iraniana, manca un tassello fondamentale: l’appoggio fornito dall’amministrazione di Jimmy Carter, allora presidente degli Usa, alla rivoluzione di Khomeini.

Secondo una vulgata tuttora dominante, la rivoluzione iraniana sarebbe stata tanto anti-Shah quanto anti-Usa. Non si tratta solo di una leggenda, perché comunque il regime monarchico persiano, prima del 1979, era il principale alleato degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente allargato. C’era sempre stato un filo diretto fra Washington e Teheran, soprattutto fra il Pentagono e l’esercito persiano: mezzo milione di uomini, armati, equipaggiati e addestrati soprattutto dagli Stati Uniti. E questo sia per la sua posizione naturale di barriera montuosa che poteva sbarrare il passo all’Urss (nella sua eventuale marcia verso il Golfo), sia per l’ideologia della monarchia persiana, autoritaria, ma modernizzatrice e filo-occidentale: per questo l’alleanza piaceva sia ai Democratici che ai Repubblicani. Il patto si è incrinato con la caduta in disgrazia del presidente Nixon, con il breve interregno del presidente Ford e con l’ascesa di Carter alla presidenza degli Usa. Prima di tutto per motivi strutturali: dopo il ritiro dal Vietnam, gli Usa dovettero ridimensionare fortemente il loro impegno nel mondo. Ma poi anche ideologici: l’amministrazione Carter denunciò il cinismo del suo predecessore repubblicano, il suo appoggio alla dittatura di Pinochet in Cile e anche il sostegno incondizionato allo Shah. Che era pur sempre un autocrate e che, nonostante la sua opera di modernizzazione, con l’opposizione, fra polizia segreta (Savak), torture ed esecuzioni, non andava per il sottile.

È in questo scenario di cambiamento della politica americana che, il 27 gennaio 1979, Ruhollah Khomeini, figura di spicco dell’opposizione religiosa allo Shah, scrisse il suo messaggio all’amministrazione Carter. La rivoluzione contro Reza Pahlavi era già in corso ed era giunta ad uno stallo: l’esercito restava fedele alla monarchia, ma la folla in piazza, nonostante la durissima repressione, era sempre più numerosa. Khomeini scrisse a Carter che, anche se Pahlavi controllava ancora l’esercito, il popolo era fedele a lui e obbediva ai suoi ordini. Khomeini era in esilio a Parigi da quindici anni, ma comunicava regolarmente con i suoi connazionali e parlava al pubblico tramite la diffusione clandestina di audio cassette. Nell’era pre-internet era il modo migliore per diffondere il messaggio a milioni di persone senza essere scoperti dalla polizia. Khomeini lo rassicurò che non avrebbe fatto del male all’America: “Vedrà che non vi è alcun particolare rancore contro gli americani”, disse allora, promettendo che la Repubblica Islamica sarebbe stata “una repubblica umanitaria, che favorirà la causa della pace e della tranquillità di tutta l’umanità”. Evidentemente Carter gli credette, investì su di lui, pensando che potesse avere un controllo migliore sull’Iran del futuro. E credette anche alla promessa di amicizia. Perché una settimana dopo, fu proprio l’amministrazione americana a convincere lo Shah a “prendersi una vacanza”, lasciando il paese nelle mani dei rivoluzionari.

La lettera di Khomeini a Carter, declassificata solo nel 2016, non era unica nel suo genere. Solo due anni fa, infatti, è emerso che vi fossero stati numerosi contatti fra il leader sciita iraniano esule e i rappresentanti del governo americano in Francia. Né si trattava di un rapporto esclusivo con Carter, perché nel 1963, Khomeini aveva chiesto aiuto anche a Kennedy, due settimane prima che il presidente americano venisse assassinato a Dallas. Khomeini era stato catturato e confinato agli arresti domiciliari. Pochi giorni prima che contattasse segretamente l’amministrazione americana, due oppositori erano stati fucilati dall’esercito dello Shah, in vista della visita di Stato sovietica, un appuntamento diplomatico che a Washington veniva interpretato come un possibile indizio di doppio gioco fra i due blocchi. Khomeini si vendette, in quella occasione, come un oppositore dello Shah, amico degli Usa e in grado di contrastare sia l’influenza sovietica sia, eventualmente, anche quella britannica (visto che il Regno Unito, fino a quel momento, aveva mantenuto le sue basi e colonie nel Golfo). La retorica della futura guida suprema iraniana era già fortemente anti-americana, ma la Cia, allora, lo considerò come un elemento “non ostile agli interessi americani in Iran”. Per Khomeini, insomma, non fu un abbaglio del solo Carter, ma un errore coltivato nei decenni. Un errore comunque, perché nei successivi 40 anni, gli Usa hanno avuto e continuano ad avere a che fare con il terrorismo sponsorizzato dall’Iran e con un odio dilagante anti-americano che ha tuttora nel regime di Teheran il suo principale megafono.

Eppure… nel 2011-2013 l’amministrazione Obama ripeté un errore analogo, in circostanze molto simili. Nel gennaio 2011, il principale motivo della caduta del regime di Moubarak in Egitto fu la pressione americana: l’amministrazione minacciò di interrompere tutti gli aiuti militari, esattamente come fece Carter con lo Shah di Persia. Ed esattamente come allora, a beneficiare della caduta dell’autocrate fu il leader degli islamici, Mohamed Morsi, leader del Partito Libertà e Giustizia, declinazione politica del movimento dei Fratelli Musulmani. E non poteva andare diversamente, considerando che i Fratelli Musulmani erano l'unica forza d'opposizione organizzata e ben ramificata in Egitto. Non solo il suo programma di lungo termine era molto simile a quello della Repubblica Islamica (benché fosse sunnita, invece che sciita), ma fra Morsi e il regime iraniano vi furono contatti diretti ed espliciti. Le navi iraniane poterono attraversare il canale di Suez, iniziò una cooperazione economica e un dialogo molto fitto con Teheran. Secondo informazioni di intelligence (che come tali vanno prese con beneficio di inventario) del Middle East Forum, vi furono anche contatti diretti fra i consiglieri di Morsi e Qassem Soleimani, capo dei servizi segreti iraniani, per “costruire un apparato di intelligence e di sicurezza del governo, indipendente dai servizi segreti nazionali”. Nel 2013 finì l’esperienza di Morsi con la rivoluzione “Tamarrod” e poi la presa del potere del generale Al Sisi. L’amministrazione Obama, che aveva avuto ben poco da dire sulla presidenza Morsi, uno dei periodi più violenti della storia recente egiziana, in quel caso iniziò a preoccuparsi per la situazione dei diritti umani e ammonì Al Sisi. Secondo il giornalista Jamal Khashoggi (assassinato dai sauditi l’anno scorso a Istanbul), Obama fece troppo poco per proteggere Morsi e condannare la presa del potere di Al Sisi. Probabilmente, dal suo punto di vista, ha anche ragione. Resta il fatto che, per quasi tre anni, Obama accettò che un esponente dei Fratelli Musulmani andasse al potere e stringesse un’alleanza di fatto con l’Iran.

Perché ripetere sempre lo stesso errore? Obama, che considera Carter suo mentore, si mosse sulle sue orme, ma avrebbe potuto vedere gli effetti degli errori di Carter, a quasi quarant’anni di distanza. Eppure l’ideologia e il metodo si sono rivelati più forti dell’esperienza. Il metodo: non credere alle dichiarazioni pubbliche di odio e credere, invece, nelle conversazioni segrete, vis à vis, fra il leader antagonista ed esponenti del governo americano. Questo è un errore abituale di molti servizi segreti occidentali, non solo americani, che portò sempre a cocenti delusioni. Perché, specie con i leader islamici che nella loro lingua, in pubblico, dicono una cosa e in inglese, in segreto, dicono l’opposto, la realtà dimostra che la parola vera è sempre quella pronunciata in lingua originale e in pubblico. Nelle conversazioni private, segrete, in inglese, al contrario, il leader islamico tende a mentire. E la sua religione glielo consente: è taqqiya, dissimulazione, una strategia considerata legittima. L’ideologia: i democratici americani, allora come oggi, hanno sempre cercato di trovare una “democrazia islamica” con cui allearsi, un regime che sapesse coniugare il favore popolare e la modernità. L’esperienza ha dimostrato sempre che il mondo islamico, quasi senza eccezione, mostra o dittature modernizzatrici, invise al popolo, o regimi elettivi islamici, amati dal popolo ma nemici della modernità e dell’Occidente. Gli errori di Carter prima e di Obama poi sono la dimostrazione che una democrazia islamica è una pia illusione. Anche se, a leggere gli ultimi articoli di Khashoggi, gli americani non hanno rinunciato a sperarci. E quindi sono pronti a ripetere ancora l’errore.