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San Patrignano, una docuserie figlia del pregiudizio

Ha creato molte polemiche la docuserie di Netflix dedicata alla Comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano, che ha insistito sulle ombre dimenticando invece le migliaia di giovani che sono stati salvati dalla droga. Ancora una ricostruzione storica di parte.

Educazione 07_01_2021

Tentare di rileggere e di far rivivere all’opinione pubblica pagine di storia dimenticate troppo in fretta può essere un esercizio nobile e altamente costruttivo. A patto che la ricostruzione delle vicende sia equilibrata e rispettosa del contraddittorio e prenda le mosse da uno scrupoloso e attento vaglio critico di tutte le fonti, le testimonianze, i punti di vista. Lasciando da parte pregiudizi e precomprensioni.

Ecco perché è giusto definire un’occasione persa la docuserie “SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano”, prodotta da Netflix Italia. Nata da un’idea di Gianluca Neri, che l’ha scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, la serie girata da Cosima Spender ricostruisce la rocambolesca storia della comunità per tossicodipendenti creata a fine anni Settanta da Vincenzo Muccioli.  «Un racconto unilaterale, sommario e parziale», lo definiscono con delusione e stizza i diretti interessati, che rimproverano agli autori del documentario (cinque puntate da un’ora ciascuna) la responsabilità di aver incentrato l’intero racconto sulla figura del padre fondatore, Vincenzo Muccioli, trascurando il generoso apporto di quanti hanno permesso alla comunità di salvare tante vite umane, con l’assistenza e il recupero dei tossicodipendenti.

Che Muccioli sia stata figura controversa e chiacchierata non v’è dubbio. Finì nel mirino della giustizia per i suoi metodi rieducativi, visse anni avventurosi e subì processi e trafile varie nelle aule giudiziarie. Le accuse rivoltegli furono molteplici e assai gravi: violenze, maltrattamenti, sequestro di persona. Nel 1985 Muccioli venne condannato in primo grado per maltrattamenti ai danni dei ragazzi, con i quali a quanto pare non andava troppo per il sottile. Non a caso si parlò di “processo delle catene”, poiché, al centro delle accuse rivoltegli, c’erano proprio le catene con cui a San Patrignano si legavano tossicodipendenti in crisi d’astinenza.

Diceva che i ragazzi arrivavano a San Patrignano, il più grande centro europeo per il recupero dei tossicodipendenti, come piante morte che lui doveva far risorgere, anche mediante la pretesa di un’obbedienza cieca. Nel 1986, però, Muccioli venne assolto in appello e l’opinione pubblica reagì positivamente, lasciando intendere di apprezzare il suo lavoro in comunità, nonostante fossero emersi in quegli anni alcuni particolari relativi alla sua familiarità con pratiche esoteriche e legate allo spiritismo.

Muccioli provò anche l’esperienza del carcere. Correva l’anno 1980 e un’ospite scappata dalla comunità raccontò alla polizia di essere stata segregata per 15 giorni. La detenzione del fondatore di San Patrignano durò oltre un mese.
Nella seconda metà degli anni Ottanta arrivarono altre accuse di violenze, misteriosi suicidi e indagini su presunte irregolarità nei passaggi di denaro attraverso la comunità.

Fatto sta che, al netto di queste pur ingombranti vicende giudiziarie, rimane la realtà di una comunità diventata negli anni punto di riferimento per le azioni di recupero dei tossicodipendenti. Dal 1979 se ne sono occupati attivamente, finanziandola, Gian Marco e Letizia Moratti. Anche quest’ultima, dopo aver visto la docuserie di Netflix, ha espresso forti riserve: «Forse sono troppo coinvolta per un giudizio. Di sicuro mi ha colpito rivivere la disperazione di tante mamme che allora vedevano Sanpa come unica speranza. E mi ha colpito che nonostante alla regista fossero state completamente aperte le porte, a me e a tantissime delle persone che ci hanno contattato e ci stanno contattando in questi giorni è parso di vedere solo le ombre. Penso sia stata un’occasione persa, perché la droga rappresenta ancora oggi una emergenza e molti giovani affrontano il tema con la fragilità e le insicurezze tipiche della loro età. Non aver raccontato nessuna delle storie di fragilità che poi sono diventate forza e vita piena è stata un’occasione persa».

Letizia Moratti trova ingenerosa e faziosa una ricostruzione come quella di Netflix, che lascia completamente nell’ombra il generoso sforzo di quanti si sono prodigati per portare avanti il progetto di Muccioli, anche dopo la sua morte, avvenuta oltre 25 anni fa: «Muccioli è stato l’uomo che ha avviato il progetto: per noi l’esperienza non era Muccioli, ma San Patrignano, e limitare tutto il racconto della comunità alla storia di un uomo non rende merito all’impegno di tutti i ragazzi per far crescere San Patrignano in ciò che è oggi per il nostro Paese».

Alessandro Rodino Dal Pozzo, presidente di San Patrignano, ha chiarito il concetto in modo ancora più netto: «Si tratta di un racconto sbilanciato, che ha voluto spettacolarizzare alcuni episodi drammatici che non raccontano la storia della comunità in quasi 40 anni di vita. Abbiamo ospitato per diversi giorni la regista della serie (…) e le abbiamo fornito l’elenco di un ampio ventaglio di persone che hanno vissuto e tuttora vivono a San Patrignano». Un elenco che, secondo Rodino Dal Pozzo, è stato “totalmente disatteso”.

Dunque una docuserie figlia del pregiudizio, che non contribuisce a far conoscere in modo trasparente e fedele alla realtà la comunità di San Patrignano e pretende di identificarla con le vicende non sempre limpide del suo padre fondatore.
Una sorta di deformazione ideologica che penalizza la ricostruzione storica e lascia davvero l’amaro in bocca a quanti si sono generosamente spesi per oltre quarant’anni per sottrarre alla tossicodipendenza tantissimi giovani.