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PAKISTAN

Sentenza scandalo: sì alla condanna a morte di Asia Bibi

L’Alta corte di Lahore, Pakistan, dopo ben cinque rinvii, ha respinto l’appello di Asia Bibi, confermandone la condanna a morte. Per evitarla, adesso non le resta che il ricorso alla Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio. Asia Bibi, cristiana, madre di cinque figli, è in carcere dal 2009 per blasfemia.

Libertà religiosa 17_10_2014
Asia Bibi

L’Alta corte di Lahore, Pakistan, il 16 ottobre si è riunita, dopo ben cinque rinvii, per esaminare l’appello di Asia Bibi e lo ha respinto, confermandone la condanna a morte. Per evitarla, adesso non le resta che il ricorso alla Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio. Asia Bibi, cristiana, madre di cinque figli, è in carcere dal 2009 per blasfemia. Nel giugno di quell’anno alcune sue compagne di lavoro musulmane l’avevano denunciata accusandola di aver insultato Maometto durante una discussione. Sembra che a istigarle fosse stata una donna in lite con la sua famiglia per questioni riguardanti una proprietà. Asia Bibi ha sempre negato di aver mancato di rispetto al Profeta. Sostiene di essersi limitata a dire di credere in Gesù morto per i peccati dell’umanità: «che cosa ha fatto il vostro profeta Maometto per salvare gli uomini?», avrebbe aggiunto, rispondendo alle provocazioni delle altre donne, ed è per questa frase che forse verrà impiccata. In primo grado, nel novembre del 2010, era stata condannata alla pena capitale da un tribunale di Sheikhupura presieduto dal giudice Naveed Igbal. Da allora vive nel braccio della morte. 

«Sono sposata con un uomo buono (…) abbiamo cinque figli, benedizione del cielo», scriveva nel 2012 quando la sua vicenda aveva ormai mobilitato milioni di persone, rivolgendosi a tutti coloro che nel mondo avevano a cuore la sua sorte, «voglio soltanto tornare da loro. (…) Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nella mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’Islam. Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. “Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto – credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”». 

Per “blasfemia” si intende qualsiasi atteggiamento ed espressione irriverenti nei confronti di Dio e della religione. In Pakistan che, con 180 milioni di abitanti, al 97% islamici, è il secondo più popoloso Paese musulmano dopo l’Indonesia, la legge che la punisce, la cosiddetta “legge nera”, è stata istituita nel 1947, anno di fondazione del Paese, il cui nome in urdu vuol dire “terra dei puri”. Nel 1986, durante la dittatura di Zia-ul-Haq, è stata emendata su richiesta degli integralisti introducendo la pena di morte per chi profana il Corano, dissacra il nome del Profeta Maometto e in qualsiasi modo offende la religione islamica. Spesso l’accusa di blasfemia viene in realtà usata come arma in conflitti di interesse, per avere la meglio contro un avversario, per vendicarsi di qualche torto subito e per colpire le minoranze religiose del paese. Difatti, la maggior parte di coloro che vengono condannati in primo grado poi vengono assolti in appello per mancanza di prove. Tuttavia, non sempre questo li salva. Alla giustizia si sostituisce la popolazione, gli attentati sono frequenti al punto che molti imputati non assistono ai dibattimenti in aula per timore di aggressioni. Molte delle persone assolte decidono di lasciare il Paese per salvarsi la vita.

Chi si pronuncia per una revisione della legge, che almeno ne attenui le pene escludendo quella capitale, si espone alla riprovazione generale e va incontro alla morte. Nel 2011, per aver difeso Asia Bibi ed essersi impegnati per introdurre degli emendamenti alla legge, sono stati assassinati il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro federale per le minoranze religiose, Shabbaz Bhatti, un cattolico. I giudici stessi temono la collera degli integralisti e ne tengono conto. Il conferimento del Premio Nobel per la Pace a Malala Yousafzai – annunciato l’11 ottobre e che certo in Pakistan, suo Paese di nascita, non è piaciuto – può aver influito sulla loro decisione di confermare la condanna di Asia Bibi.

Il vescovo di Islamabad/Rawalpindi, monsignor Rufin Anthony, ha definito quella dei giudici una «decisione straziante» e ha lanciato un appello ai cristiani di tutto il mondo, raccolto dall’agenzia di stampa missionaria AsiaNews, perché «si uniscano alla preghiera per Asia Bibi e per le altre vittime di blasfemia». Padre Adsher James, dell’arcidiocesi di Lahore, ha annunciato che domenica 19 si svolgeranno delle iniziative di solidarietà a cui tutta la comunità cristiana è invitata a partecipare.