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FAMIGLIA

Serve un padre per riconoscere un senso

Oggi l'uomo risente di una cultura plurisecolare, discendente dall'illuminismo, che ha distrutto la figura del padre, che per un figlio rappresenta colui che pone le regole. Aggressività o cieca violenza, peridita dell'idea di autorità e incapacità di creare una famiglia sono tra le conseguenze di questa eliminazione.

Famiglia 02_07_2013
padre e figlio

«Serve un padre per differenziarsi dalla madre, per accettare le ferite e riconoscere il senso ed esprimere il proprio Sé, entrando così personalmente nel tempo e nella storia». Così scrive Claudio Risé in Il padre. Libertà dono (edizioni Ares, 2013, pp. 142). Nel mito Edipo uccide il padre Laio senza saperlo e sposa la madre Giocasta. La vicenda raccontata dal tragediografo greco Sofocle (496 a. C.-406 a. C.) profeticamente si è avverata nell’epoca contemporanea.

Oggi l’uomo risente di una cultura plurisecolare (discendente dall’Illuminismo) che ha distrutto i padri tentando di conservare solo i valori di cui essi erano stati detentori fino ad allora. Il Settecento illuministico francese ha cercato di eliminare Cristo e la Chiesa conservando i valori di uguaglianza, fraternità, libertà che millesettecento anni di storia cristiana avevano portato in Europa. Il tentativo dell’eliminazione della figura del re e della monarchia in Francia e l’abolizione dell’Ancient régime con la Rivoluzione francese rappresentano simbolicamente la cancellazione dell’antico per l’instaurazione del nuovo, la decollazione del padre per l’intronizzazione del figlio. La storia ha, poi, insegnato che non era possibile realizzare repentinamente questo passaggio brusco e rivoluzionario, perché i gradini si salgono con sacrificio e pazienza, non si possono saltare. I salti bruschi comportano di solito spargimento di sangue e involuzioni dal punto di vista della società e dei valori. Nietzche fa piazza pulita di tutti i padri del passato (Socrate, Cristo, s. Paolo, tradizione, i valori, …) per lasciare il bimbo superuomo solo con se stesso, senza padre né madre. Nel Novecento i segnali di questa ribellione al padre/tradizione/autorità sono moltissimi. Tra questi senz’altro la ribellione sessantottina è uno dei più clamorosi.

Negli ultimi quarant’anni, e oggi in maniera sempre più accentuata, la cultura e il diritto occidentali hanno reso superflua o facoltativa la figura del padre. Abbiamo sentito in questi giorni che in Francia si vuole sostituire la festa del papà e della mamma con la festa dei genitori in modo da non discriminare nessuno. Oggi si pretende, cambiando il nome agli arbitri personali, alle nefandezze, agli omicidi, inserendole nell’ambito del diritto e della legalità, di nobilitare ciò che non è nobile, di far passare come conquista ciò che è, invece, una sopraffazione dei più deboli, di chi non parla, di chi non può ancora dire ad alta voce che vorrebbe avere un padre e una madre.

Nella loro nascita i nomi nascondono sempre la verità delle cose. Il matrimonio deriva da munus matris, ovvero «il dovere o compito della madre». Chi vuole chiamare «matrimonio» l’unione tra due persone dello stesso sesso dovrebbe spiegare perché non possa o non voglia chiamarlo con un nome diverso. Non basta cambiare il nome alle cose per cambiarne la natura. Un cane rimane sempre un cane anche se decidessimo di chiamarlo «gatto». Se due persone dello stesso sesso adotteranno un bimbo, lo priveranno della diversità di un papà e di una mamma. la coppia che cresce un figlio ha la sua ricchezza proprio nella diversità e, in un certo senso, complementarietà della figura dell’uomo e della donna, del padre e della madre. Così è sempre stato nella storia dell’umanità, da quando gli esseri umani si sono distinti dalle fiere, per dirla col Foscolo dei Sepolcri (si vada a leggere la cosiddetta parte vichiana del carme «Dal dì che nozze e tribunali ed are»).

La madre è accoglienza, è pazienza, è colei che ha tenuto nel grembo per nove mesi il figlio, lo ha aspettato vivendo la dimensione del sacrificio e dell’abnegazione. Il femminismo degli ultimi decenni non ha certo valorizzato la donna, ma ha voluta equipararla all’uomo destituendola in realtà di quelle virtù che l’uomo deve spesso imparare da chi ha fatto esperienza dell’ospitalità in modo fisico e direi viscerale. Questa comunione con il figlio per nove mesi rende il rapporto tra madre e figlio fortemente biologico, fisiologico, carnale. Il padre inizia a conoscere il figlio solo dopo averlo visto nascere. Prima, nei nove mesi in cui il bimbo è nel ventre materno, è osservatore, non comunica con lui o poco, difficilmente prende pienamente coscienza della novità, poi diventa nel tempo autorità, legge, colui che pone le regole. Chiaramente ogni famiglia è a sé, in ogni nucleo padre e madre imparano a collaborare, a far crescere i figli, a comunicare loro le proprie esperienze e le proprie capacità. Qui, intendiamo, però, sottolineare che esiste una differenza di genere tra uomo e donna, una differenza ontologica e di storia tra papà e mamma.

Le conseguenze di questo processo di eliminazione della figura paterna sono sotto gli occhi di tutti: aggressività o cieca violenza, senso di sfiducia e di autostima, perdita dell’idea di autorità, incapacità di diventare papà e di creare una famiglia, assenza del senso del limite e del senso del sacrificio con conseguente inadeguatezza di fronte  alle sconfitte e alle frustrazioni, atteggiamenti nevrotici o psicotici. Il giovane o l’adulto cerca di inibire o di sopire questa aggressività collettiva o individuale, non controllata e regolamentata, non soggetta al senso dell’autorità e della regola, attraverso assunzione di alcool o droghe (l’inibizione avviene qui attraverso la trasgressione), disinibizione dell’erotismo, forme di evasione come eccessivo uso di televisione e di videogiochi, infinite altre forme di intorpidimento dell’io. La società in cui viviamo è, in maniera simbolica, una «grande madre» che stimola i bisogni degli individui al fine di soddisfarli sempre meglio con beni crescenti, sempre più sofisticati, che tratta i suoi componenti guardando le sue necessità biologiche e fisiologiche. L’individuo regredisce ad una situazione infantile, si sente debole, deprivato di forza e di creatività, svuotato di energia spirituale, concepito solo per avere e possedere. Il giovane, spesso, regredisce allo stadio di dipendenza dalla madre rimanendo in casa fino all’età adulta, lasciandosi cullare da agio e tranquillità domestica.

Al figlio si deve mostrare un modo realistico e ragionevole di rapportarsi con la realtà. Mostrare che non è onnipotente, che ci sono dei limiti da rispettare, dei paletti entro cui camminare è profondamente educativo, perché introduce alla realtà indicando, nel contempo, che c’è anche una via da seguire, un sentiero. Il bimbo coglie così un senso, una finalità, un significato positivo che, nel tempo, imparerà a verificare per sé. Invece, la pretesa violenta di incanalare il figlio in una strada o di progettarne il futuro non aiutano la sua crescita e la capacità di scelta. Ci si deve allora guardare dal tranello di voler dirigere la vita del figlio. Bisogna imparare a guardare il figlio con quel distacco, che è il contrario dell’indifferenza e della distanza, ma che potremmo descrivere con un’immagine dello scrittore francese C. Peguy. Un figlio è nell’acqua di un  fiume, ma non sa ancora nuotare. Il Padre (rappresenta Dio Padre) non vuole che lui anneghi, allora lo sostiene con le braccia, ogni tanto lo lascia perché vuole che lui impari a stare a galla, ma non può lasciarlo solo completamente perché berrebbe l’acqua. Peguy immagina che Dio dica: «Ho voglia, sono tentato di mettere loro la mano sotto la pancia/ Per sostenerli nella mia larga mano/ Come un padre che insegna a suo figlio a nuotare/ Nella corrente del fiume/ E che è diviso fra due sentimenti./ Perché se da un lato se lo sostiene sempre e lo sostiene troppo/ Il bambino si attaccherà e non imparerà mai a nuotare./ Ma anche se non lo sostiene al momento giusto/ Questo bambino berrà un sorso cattivo». 

Come è bello vedere un figlio che acquista consapevolezza dei propri mezzi, nel contempo com’è drammatico lasciare la libertà a chi si vuole bene, coscienti che le scelte dell’altro potrebbero non essere indirizzate al suo bene! Eppure Dio ha deciso di scommettere totalmente sulla nostra libertà, perché senza di essa la nostra condizione non sarebbe dignitosa. Sostegno e libertà sono i due fattori su cui si gioca il rapporto tra genitori e figli. La verginità è quello sguardo capace di guardare l’altro senza pretese, senza desiderio di possederlo, ma con l’attenzione costante al Destino, al bene e alla felicità dell’altro.