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CONTINENTE NERO

Stati falliti. Mali, Mozambico e Zimbabwe nella bufera

Golpe nel Mali. Pochi anni dopo aver sventato la secessione dell'Azawad, lo Stato africano collassa per corruzione e malgoverno. Lo Zimbabwe finisce in una nuova crisi economica, 3 anni dopo la fine di Mugabe. E il Mozambico è alle prese con gli jihadisti dello Stato Islamico. Non un bel 60mo anniversario della decolonizzazione in Africa. 

Esteri 20_08_2020
Mali, conferenza dei militari dopo il golpe

Un colpo di stato militare il 18 agosto in Mali ha deposto il presidente della repubblica, Ibrahim Boubacar Keita. È il quarto golpe da quando il paese è diventato indipendente nel 1960. Quello precedente risale al 2012 e ne avevano approfittato tre gruppi jihadisti, per impadronirsi delle più importanti città del nord, Gao, Timbuctu e Kidal, e il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad per proclamare la secessione dei territori settentrionali e delle popolazioni tuareg che, dall’indipendenza, patiscono la supremazia politica delle etnie del sud. L’anno successivo le vittorie militari della missione di peacekeeping Onu Minusma e delle truppe francesi dell’operazione Serval avevano stabilizzato il paese abbastanza da consentire che si indicessero le elezioni politiche che hanno portato all’elezione di Keita, confermato poi per un secondo mandato nel 2018. Ma di fatto il paese è stato riconsegnato alla stessa classe politica responsabile della crisi a mala pena risolta e le conseguenze negative sono state subito evidenti. La secessione è stata scongiurata, ma la mancanza di controllo soprattutto sui territori del nord ha consentito ai gruppi jihadisti di insediarsi, benché allontanati dai grandi centri urbani, e muoversi liberamente.  

Negli ultimi mesi la capitale Bamako è stata teatro di manifestazioni di protesta sempre più estese: contro la corruzione, il malgoverno, il clientelismo, i brogli elettorali, la carenza di servizi e infrastrutture, l’insicurezza crescente per l’aumento della violenza comune e tribale e degli attentati jihadisti. Di recente a guidare folle enormi, incitandole a chiedere le dimissioni del presidente, è stato un imam originario di Timbuctu, Mahmoud Dicko, un sostenitore dell’islam tradizionalista dell’Africa Occidentale, ma anche delle radici culturali del Mali pre-islamico.

L’irresponsabile debolezza del governo maliano ha ripercussioni a livello regionale perché consente ai jihadisti di mantenere le basi dalle quali partire per incursioni e attentati nei paesi circostanti, specialmente in Burkina Faso e in Niger. Il 19 agosto una delegazione dell’Ecowas, la comunità economica di cui il Mali fa parte, si è pertanto recata a Bamako per sollecitare una rapida soluzione della crisi: come al solito, in Africa, con la formazione di un governo di unità nazionale in cui tutte le componenti politiche trovino spazio e opportunità di spartire cariche politiche e amministrative.

I militari sono entrati nella capitale il 18 agosto accolti dagli abitanti in festa. Hanno espresso l’intenzione di insediare un governo di transizione che traghetti il paese a nuove elezioni. I militari lo dicono sempre per tacitare Nazioni Unite, Unione Africana e soprattutto i donatori internazionali.

Seimila chilometri più a sud, altri due paesi sono alle prese con una crisi che può diventare regionale coinvolgendo tutta l’Africa australe. Lo Zimbabwe sta rivivendo l’incubo del primo decennio del secolo quando la cosiddetta “riforma agraria” imposta dall’allora presidente Robert Mugabe ha portato il paese, che era stato una delle colonie britanniche più prospere, letteralmente alla bancarotta. L’economia non si è più ripresa del tutto e da qualche tempo la situazione è peggiorata. Di nuovo si registra un tasso di inflazione astronomico e la disoccupazione, ufficialmente del 5,6%, in realtà si stima sia intorno al 90%, se si considerano le occupazioni regolari. La destituzione di Mugabe nel 2017, che ha messo fine a un regime durato 37 anni, è stato il risultato di uno scontro tra due fazioni del partito di governo, lo Zanu-Pf, e, come in Mali, non ha portato il rinnovamento necessario. L’attuale presidente è Emmerson Mnangagwa, leader della coalizione vincente, che ha l’eloquente soprannome di “coccodrillo”. I vescovi di sette città il 14 agosto hanno pubblicato una lettera di denuncia: “la lotta in Zimbabwe – hanno scritto – ha prodotto il collasso dell’economia, una povertà crescente, insicurezza alimentare diffusa e violazioni dei diritti umani. La corruzione ha raggiunto livelli insostenibili”. È esattamente quel che succedeva prima del golpe bianco e, proprio come faceva Mugabe, anche Mnangagwa ordina la repressione violenta del dissenso e replica che è tutto falso, un complotto dell’opposizione sostenuta da forze straniere che mirano a destabilizzare il paese: chiacchiere di “mele marce” che saranno presto stanate. La crisi precedente ha indotto tre milioni di cittadini a lasciare il paese, riversandosi soprattutto in Sudafrica. Oggi né il Sudafrica né gli altri stati confinanti sarebbero in grado di sostenere un simile afflusso di persone disperate.

Di sicuro non è in condizioni di farlo il Mozambico dove di giorno in giorno si aggrava la situazione creatasi nel nord, nella provincia di Cabo Delgado sotto attacco dei jihadisti al-Shabaab, affiliati all’Isis. Il fatto clamoroso è che la scorsa settimana hanno attaccato per la terza volta il porto di Mocimboa da Praia, una città di 70.000 abitanti, e, nonostante le assicurazioni del governo, tutto fa pensare che ancora ne abbiano il controllo. Il 13 agosto il Tanzania ha annunciato che sta organizzando una offensiva contro i jihadisti che infestano le foreste al confine con il Mozambico e ha disposto l’evacuazione delle popolazioni civili che vivono nell’area. È possibile che anche la Sadc, la comunità economica dell’Africa australe, decida di intervenire se necessario militarmente a sostegno del governo mozambicano. L’Isis potrebbe infatti cercare di aprire un fronte nell’Africa australe. I suoi combattenti mozambicani sono ben armati, organizzati e, come in Mali, possono contare su complicità, omertà e una forte attrazione soprattutto sui giovani grazie a decenni di amministrazioni e governi corrotti, di elezioni manipolate, di violenze e abusi sui civili da parte di chi invece li dovrebbe proteggere.

60 anni fa iniziava la decolonizzazione dell’Africa. Nel 1960, l’ “Anno dell’Africa”, ben 17 Paesi hanno ottenuto l’indipendenza. In questi giorni l’evento è stato ricordato e celebrato. Due anni dopo, mentre uno dopo l’altro gli altri Stati africani diventavano indipendenti, Rèné Dumont pubblicava un libro intitolato L’Afrique noire è mal partie, il primo saggio “afropessimista”, controcorrente nel generale clima di entusiasmo di allora. I fatti gli hanno dato ragione.