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LA SENTENZA

Suicidio, la Consulta apre all’obiezione di coscienza. Che non reggerà

La Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza sull’incostituzionalità di parte dell’articolo 580 del Codice penale. A determinate condizioni, l’aiuto al suicidio non è più penalmente perseguibile. Eppure la Consulta ha riconosciuto l’obiezione di coscienza a favore dei medici (ma non della struttura ospedaliera), che però è destinata a essere spazzata via, causando l’eutanasia anche della libertà dei medici.

Vita e bioetica 24_11_2019

Brevissima sintesi della recente vicenda giudiziaria che ha interessato il reato di aiuto al suicidio ex articolo 580 del Codice penale. Nel febbraio del 2017 il leader radicale Marco Cappato accompagna Dj Fabo in Svizzera e nella clinica Dignitas quest’ultimo trova la morte. Cappato si autodenuncia per il reato di aiuto al suicidio. Si apre un processo a suo carico che successivamente si arresta perché i giudici chiedono alla Corte Costituzionale di verificare la legittimità costituzionale dell’art. 580 cp. Nell’ottobre del 2018 la Consulta, con una ordinanza, chiede al Parlamento di legiferare in materia affinché il reato di aiuto al suicidio sia depenalizzato in alcuni casi. Passa quasi un anno, ma il Parlamento non vara nessuna legge al riguardo e così la palla, a settembre di quest’anno, ritorna alla Consulta, la quale in una nota indica le condizioni nel rispetto delle quali il suicidio assistito non ha più rilievo penale.

Venerdì scorso viene pubblicata la sentenza che esplicita i contenuti della nota emessa a settembre. Le sezioni della sentenza più salienti sono le seguenti: «L’art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo […] nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». Dunque l’aiuto al suicidio non è più penalmente perseguibile se si rispettano le condizioni appena descritte e che avevamo già commentato due mesi or sono.

Perché la Consulta ha depenalizzato l’aiuto al suicidio in alcune ipotesi? A motivo di un ragionamento semplice semplice. Se la legge 219 del 2017, la cosiddetta legge sulle Dat, permette di praticare l’eutanasia tramite la non attivazione o l’interruzione di presidi vitali quali alimentazione, idratazione e ventilazione assistita, ma anche tramite la sedazione profonda, non si comprende il motivo per vietare di usare altri mezzi per far morire una persona, ad esempio fornendo al paziente un preparato letale che verrà assunto dal paziente stesso: dicasi aiuto al suicidio.

In buona sostanza, legittimata l’eutanasia in una sua particolare modalità, sarebbe irragionevole escludere altre modalità per praticare l’eutanasia. Così la Consulta: «Se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri». Accettate per buone alcune premesse, non si possono rifiutare le relative conclusioni.

Poniamoci ora una domanda: l’aiuto al suicidio è stato “solo” depenalizzato oppure è diventato un vero e proprio diritto? In un precedente nostro articolo avevamo scritto che la Consulta non aveva solo depenalizzato, per alcune ipotesi, il reato di aiuto al suicidio, ma lo aveva anche legittimato, ossia non aveva solo escluso il carcere per il medico che aveva favorito la morte del paziente, ma aveva attribuito a quest’ultimo un vero e proprio diritto soggettivo di essere aiutato a morire. La motivazione principale che avevamo indicato risiedeva nel fatto che la Consulta, nell’ordinanza dell’ottobre del 2018 e nella nota del settembre scorso, non aveva fatto alcun cenno all’obiezione di coscienza e quindi pareva che anche al suicidio assistito dovesse applicarsi la legge 219/2017 che non prevede l’obiezione di coscienza a favore dei medici. Ergo, se il paziente chiede al medico di aiutarlo a morire questo non può rifiutarsi, ossia il medico ha l’obbligo di accogliere la sua richiesta. Ma se il medico ha il dovere di aiutare il paziente a togliersi la vita, ciò vuol dire che in capo a quest’ultimo è predicabile un diritto soggettivo di chiedere di essere aiutato a suicidarsi.

Detto ciò, ecco però che la Consulta venerdì ha riconosciuto l’obiezione di coscienza a favore dei medici: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Dunque, si potrebbe così argomentare, dato che la Consulta ha esplicitamente previsto l’obiezione di coscienza, che il medico non ha l’obbligo di aiutare il paziente a suicidarsi e dunque quest’ultimo non è titolare di nessun diritto soggettivo relativo al suicidio assistito. Non è così.

Infatti, seppur il singolo medico possa obiettare, la pretesa costituzionalmente tutelata del paziente di essere aiutato a morire deve trovare soddisfazione, ergo esiste un diritto soggettivo al suicidio assistito. Dunque, stante l’obiezione di coscienza, la struttura ospedaliera dovrà adempiere tale obbligo. È la medesima situazione giuridica presente nell’aborto procurato, dove esiste l’obiezione di coscienza e parimenti il diritto della donna di abortire.

Detto ciò, l’apertura della Consulta all’obiezione di coscienza, da una parte, è sicuramente l’unico aspetto positivo di una sentenza gravemente iniqua, ma dall’altra sul piano giuridico è, ahinoi, contraddittoria. Infatti, la Consulta fa esplicitamente discendere questa sentenza dai principi presenti nella legge 219/2017. Ma in questa legge non è presente l’obiezione di coscienza. Quindi la contraddizione che viene in rilievo è la seguente: se, ad esempio, il paziente chiede di staccare la Peg che lo alimenta e lo idrata, il medico deve obbedire a tale richiesta ex lege 219 perché questi non si può avvalere dell’obiezione di coscienza. E dunque è costretto ad uccidere il paziente. Se invece un altro paziente chiede un preparato letale per togliersi la vita il medico può rifiutarsi perché glielo ha permesso la Consulta. Eppure, come ha ricordato la Corte stessa, le due situazioni sono assolutamente sovrapponibili.

Dunque cosa accadrà? Accadrà il peggio, perché accade sempre il peggio in queste materie. Il Parlamento sta esaminando qualche disegno di legge che deve tradurre in disciplina normativa le indicazioni della Consulta. Tale disciplina normativa si deve ispirare alla legge 219 e dunque si deve armonizzare con quest’ultima. Dato che la legge 219 non prevede l’obiezione di coscienza, non dovrà essere prevista nemmeno per l’aiuto al suicidio: una disparità di trattamento che sarebbe giudicata ingiustificata. Infatti ci sarebbero pazienti di serie A che potrebbero morire senza essere costretti ad andare da medico in medico per trovarne uno disponibile a staccare la spina ed altri di serie B che dovrebbero dribblare gli obiettori per poi arrivare finalmente in rete, anzi nella fossa. Dunque, non illudiamoci: dall’eutanasia del paziente all’eutanasia della libertà del medico il passo sarà breve.