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EDITORIALE

Tanto lavoro a parole (e quello possibile subito)

Tutti a parlare di lavoro, ma poi finisce che le risse ideologiche frustrano anche le migliori intenzioni del governo. Aldilà delle battaglie sulle regole del mercato, basterebbe però solo una maggiore efficienza di Stato ed enti locali per creare subito migliaia di posti.

Editoriali 27_10_2014
Offerte di lavoro

Ne abbiamo ascoltate e lette tante di parole sul lavoro, dai palchi delle piazze e nelle vecchie stazioni, nei dibattiti in televisione e nei commenti ospitati dai giornali. Ognuno con la sua ricetta, ognuno pronto a contestare le ricette degli altri. In maggioranza, almeno di quelli che parlano più forte, uniti nel difendere le attuali regole come se non fosse vero che negli ultimi due anni hanno perso in vario modo il proprio posto di lavoro a tempo pieno oltre un milione di persone con una disoccupazione che è passata dall'8,4 a oltre il 12 per cento.

Eppure pur condividendo tutti a parole la necessità di creare le condizioni per una ripresa economica che porti con sé la creazione di nuovi posti di lavoro, soprattutto in Italia, questo tema ha fatto emergere tutti i vecchi mali di una politica e soprattutto di un sindacato fermi nella difesa di vecchi modelli e di vecchi privilegi. Va dato atto al premier, Matteo Renzi, di aver messo fin dall’inizio la riforma del mercato del lavoro ai primi posti nell’attenzione del Governo: e la volontà di fare qualcosa di nuovo è stata espressa anche nel nome, “Jobs act”, un nome all’inglese quasi come questo dovesse essere un certificato di modernità.

Ma dopo i primi provvedimenti, come quello riguardante l’estensione dei contratti a termine, la discussione si è impantanata tra le schermaglie di partito, gli ultimatum sindacali e le risse ideologiche: con al centro quell’articolo 18, quello sui licenziamenti individuali, un articolo che da tanti anni costituisce insieme un punto di principio per i conservatori (estrema sinistra compresa) e un alibi per l’incapacità dei riformisti di compiere dei veri cambiamenti.

Sull’articolo 18 la politica bizantina e gattopardesca ha sempre dato il meglio di sè: far finta di cambiare qualcosa per non cambiare nulla. E il sindacato ha mantenuto la strategia del catenaccio senza accettare il fatto che sul lavoro in momenti come questi bisogna giocare all’attacco, valorizzare il merito, dare fiducia alle persone e alle imprese. Come scrive Luigino Bruni nel suo ultimo libro “Fondati sul lavoro”: “Oggi l’Italia non sta sprofondando perché nonostante tutto ci sono milioni di persone, uomini e donne, lavoratori e imprenditori, che ogni mattina si alzano per fare il loro dovere, che cercano di risolvere i problemi loro e degli altri, di essere innovativi attingendo alla loro creatività” .

E allora guardiamo a tre esempi.

Il più rilevante è quello dei fondi strutturali europei. L’Italia ha la possibilità di spendere entro la fine del 2015 qualcosa come 17 miliardi a cui si possono aggiungere 13 miliardi di cofinanziamento. Per spenderli ci vogliono progetti approvati prima in sede regionale (già, il federalismo!), poi in sede nazionale, infine dall’Europa. Un iter non breve che finora è stato iniziato solo per il 40% delle risorse. Sono soprattutto le regioni meridionali ad essere in ritardo per l’inefficienza degli uffici e per le dispute al loro interno sui progetti da privilegiare. Il rischio molto concreto se non si arriva in tempo è che questi soldi vadano ad altri paesi più svelti e più efficaci. 

Il secondo esempio è più piccolo, ma vale sempre 200 posti di lavoro. Da 18 mesi sono bloccati i lavori, già finanziati, per il nuovo breve tratto italiano della ferrovia Varese-Mendrisio destinata peraltro anche a collegare la Svizzera con l’aeroporto della Malpensa. Ebbene i lavori sono bloccati perché non si è trovata una soluzione per lo smaltimento dei terreni di scavo: o meglio, la soluzione ci sarebbe colmando una vecchia cava non lontana, ma nessuno si è voluto assumere la responsabilità tanto che la pratica è ferma da mesi addirittura al Comitato interministeriale della programmazione economica. Forse in attesa che per spostare qualche metro cubo di terra arrivi l’intervento delle Nazioni Unite.

Il terzo esempio è ancora più piccolo, ma vale comunque 50 posti di lavoro. Una tra le più grandi aziende di trasporti ha fatto domanda vent’anni fa per ampliare il proprio magazzino di Sommacampagna, nei pressi di Verona. Tra rinvii, richieste di modifiche e variazioni del piano regolatore il tempo è passato, il permesso comunale non è stato mai accordato e i posti di lavoro sono rimasti nel regno del possibile.

Morale della favola. Vanno bene le battaglie per rendere più moderne le regole, anche quelle del mercato del lavoro, madelle battaglie sulle regole del mercato del lavoro se lo Stato, le Regioni, i Comuni funzionassero con più efficienza qualche migliaio di concreti nuovi posti di lavoro si potrebbero sicuramente creare.