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CHIESA

Torna il mito di Medellin, 50 anni dopo

A Medellin si lesse il Concilio come un invito a fare teologia a partire da una situazione. In questo caso si trattava della situazione latino-americana di oppressione e sfruttamento. Si posero quindi le basi concettuali della teologia della liberazione, anche se non si possono appiattire le due cose una sull’altra.  E nonostante il cambio di passo dei pontificati successivi, oggi il mito prosegue ancora. 

Dottrina sociale 29_08_2018

Nel 1968 si tenne a Medellin (Colombia) la prima conferenza del CELAM, il Consiglio delle Conferenze Episcopali dell’America Latina e dei Caraibi. Quello di Medellin è stato subito considerato un “evento” dello Spirito, uno dei frutti primi e principali del Concilio, la presa di coscienza di una Chiesa che parte dal suo contesto latinoamericano per dare un  contributo originale alla teologia e alla vita cristiana. Quel mito è rimasto un mito ed anche oggi, celebrandone i 50 anni, viene riproposto esattamente come allora, come un mito, senza una lettura con i piedi per terra di quanto ne è seguito. Con una aggiunta: quel mito viene collegato immediatamente con Papa Francesco che finalmente lo attuerebbe.

A Medellin si lesse il Concilio come un invito a fare teologia a partire da una situazione. In questo caso si trattava della situazione latino-americana di oppressione e sfruttamento. Si posero quindi le basi concettuali della teologia della liberazione, anche se non si possono appiattire le due cose una sull’altra. Che il Vaticano II avesse lasciato delle fessure che permettono questa interpretazione è evidente. Come è altrettanto evidente che questa, diciamo così, sensibilità storica, si deve alla Nouvelle Théologie che precedette il Vaticano II e lo influenzò. Rimane comunque una forzatura – un mito – presentare Medellin come l’implementazione del Vaticano II, dei cui insegnamenti Medellin trascura molti aspetti.

Fare teologia a partire dalla situazione, del resto non è un prodotto latinoamericano, ma europeo. A Medellin si credette – e ritorna il mito – di perseguire una via autoctona ed invece si percorreva una strada europea, che si inscriveva nella svolta antropologica di Rahner e nella teologia politica di Metz. Questa teologia a partire dalla situazione, ossia la teologia come “atto secondo” perché il primo sarebbe la prassi (da che parte stai? Dalla parte degli sfruttati o da quella degli sfruttatori?) è stata poi contraddetta dai successivi incontri del Celam, a distanza di circa dieci anni l’uno dall’altro. Ma per non intaccare il mito questo non viene ricordato. A Puebla, nel 1979, Giovanni Paolo II ripropose la Dottrina sociale della Chiesa. A Santo Domingo, nel 1992, fu cambiato lo schema usuale del vedere-giudicare-agire. Ad Aparecida, nel 2007, Benedetto XVI disse che il punto di vista da assumere non è la situazione sociale ma la fede apostolica.

In ogni caso già l’intervento di Giovanni Paolo II a Puebla, subito dopo la sua nomina a Sommo Pontefice, poteva dirsi la chiusura dello spirito di Medellin. Che, siccome si trattava di un mito, invece continuò e continua anche oggi, complice – strano a dirsi – la riabilitazione improvvida della teologia della liberazione attuata dal Cardinale Müller qualche anno fa. Il nuovo Papa, infatti, ripropose organicamente la Dottrina sociale della Chiesa che riproponeva lo schema tradizionale del rapporto Chiesa e mondo in contrasto con quello nuovo elaborato a Medellin. Se oggi si propone il collegamento tra Medellin e Papa Francesco, si sappia che si mette tra parentesi una cinquantina d’anni di magistero pontificio. Un buco enorme che solo un mito può tollerare.

Appartiene al mito di Medellin non solo un nuovo metodo teologico che parte dalla situazione e dalla prassi, ma anche un nuovo contenuto: la scelta preferenziale per i poveri. Sarebbe questo un nuovo principio del magistero sociale della Chiesa, accanto a quelli più noti del bene comune o della destinazione universale dei beni. È un vanto dei vescovi latinoamericani averlo elaborato come contributo specifico delle loro chiese alla Chiesa universale. Si tratta però di un principio ambiguo e che si presta facilmente alla strumentalizzazione politica e ideologica. Combinato con il metodo di partire dalla prassi, esso richiede che ci si schieri per i poveri prima di fare teologia, il che stravolge completamente la visione che dei poveri ha il Vangelo. Accade così che i poveri intesi in senso sociologico abbiano la meglio sui poveri evangelicamente intesi. Ciò schiera le comunità cristiane in battaglie che non sono loro proprie, ma che sono asservite a interessi ideologici. Collocarsi contro Gli Stati Uniti d’America, affamatori del sub-continente americano, veniva intesa così come la condizione primaria per  fare la scelta preferenziale per i poveri.

Che Medellin sia stato un mito e che tale, purtroppo, resti, è testimoniato anche dalle sue conseguenze in America Latina. Di fatto è iniziato lì un lungo processo di secolarizzazione interna alla Chiesa e avente come protagonista la Chiesa stessa. Nonostante si sia pensato che la religiosità popolare andasse coltivata e sostenuta, l’idea di partire dalla prassi la rendeva inefficace e quindi conservatrice, come del resto la tradizione.