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GOVERNO CONTROVERSO

Trudeau, l’idolo dei liberal che non piace ai canadesi

Dopo l’inginocchiamento alla marcia di Black Lives Matter, Justin Trudeau è sempre più l’idolo del mainstream liberal internazionale. Il Canada, però, alle prese con una disoccupazione da record e un notevole deficit della bilancia commerciale, è sempre più insofferente verso il suo premier. Che in tempo di Covid pensa a finanziare l’aborto all’estero, si mostra succube della Cina, mentre in patria vira verso forme di pericoloso autoritarismo.

Esteri 16_06_2020

Dopo il plateale silenzio in conferenza stampa prima di rispondere a una domanda su Trump e la partecipazione alla marcia di Black Lives Matter a Ottawa con tanto di inginocchiamento, Justin Trudeau è sempre più l’idolo del mainstream liberal internazionale. La sua ricerca quasi spasmodica nel voler apparire il contraltare mediatico del tycoon statunitense attraverso gesti eclatanti, dichiarazioni dimostrative e adesioni a cause popolari in un determinato ambiente sembra aver assorbito, da tempo, la maggior parte delle energie del premier canadese.

Il Paese, però, alle prese con il notevole deficit della bilancia commerciale, la disoccupazione salita alla percentuale record del 13,7% e i tassi di interesse scesi ai minimi storici, è sempre più insofferente di fronte alle trovate da showman di mini Pet, il soprannome ereditato dal padre Pierre Elliott. Il mondo pro life, che non gli perdona le leggi e le posizioni a favore dell’aborto e dell’eutanasia nonostante la proclamata fede cattolica, è andato su tutte le furie dopo la decisione del suo governo di stanziare - in piena emergenza - 8,9 milioni di dollari per garantire alle donne dei Paesi più svantaggiati economicamente di accedere all’aborto durante la pandemia. Una misura in linea con quanto già fatto in passato, dal momento che lo scorso anno Trudeau aveva annunciato una spesa di 14 miliardi di dollari delle casse canadesi per facilitare gli aborti all’estero.

I cattolici, che hanno accettato con sofferenza le misure preventive contro la diffusione del Coronavirus, sono potuti tornare a Messa soltanto a giugno e non senza gravi limitazioni. Per questo, le scene degli assembramenti alle manifestazioni contro il razzismo viste lo scorso 7 giugno nelle principali città del Paese nordamericano - a prescindere dalle ragioni della protesta - hanno scandalizzato non pochi fedeli costretti a vedere l’ingresso nelle loro parrocchie contingentato, a dover prendere l’Eucarestia sulla mano, a rinunciare al segno di pace con il vicino di banco. Già durante il lockdown molti avevano storto la bocca di fronte alla decisione di non considerare essenziale il bisogno spirituale di accedere a chiese, moschee e sinagoghe al cospetto della scelta di lasciare aperti i negozi di animali e i distributori di liquori.

Padre Raymond J. De Souza, in un editoriale su The National Post contro l’abdicazione della politica davanti alla scienza, ha evidenziato il paradosso: “Quando il primo ministro si è inginocchiato in una dimostrazione piena di gente a Parliament Hill, non seguiva la scienza. Dopotutto, gli scienziati della sanità pubblica ci hanno detto che era così pericoloso per una persona inginocchiarsi in una cattedrale vuota che tutte le chiese andavano chiuse”.

La gestione della crisi da parte di Trudeau, infatti, è stata criticata dagli oppositori anche per gli eccessivi poteri concessi agli esperti della Health Canada, responsabile della politica sanitaria, e del Comitato speciale di gabinetto per il Covid-19 a fronte della sospensione di tutte le sedute regolari della Camera dei Comuni decisa fino a settembre. L’emergenza Coronavirus, peraltro, ha solo accelerato il trend d’indebolimento delle funzioni del Parlamento di Ottawa che nell’ultimo anno ha ospitato soltanto 38 giorni di sedute regolari. Una perdita di centralità a cui potrebbe aver concorso il fatto che il paladino dei liberal di mezzo mondo, pur avendo vinto le elezioni presidenziali nel 2019, non può disporre della maggioranza parlamentare assoluta. Trudeau, infatti, ha preso meno voti del suo sfidante conservatore, Andrew Scheer, ma ha potuto formare un governo di minoranza grazie al sistema uninominale dei seggi che ha premiato il suo Partito Liberale, pur non consentendogli di arrivare ai 170 seggi necessari per governare in solitaria.

Autoritarismo, troppe decisioni politiche delegate ai tecnici, superamento della democrazia parlamentare: le accuse rivolte al primo ministro canadese sono familiari al pubblico italiano. Ad accomunare mini Pet al suo omologo italiano, Giuseppe Conte, inoltre, c’è il ricorso frequente ad annunci e conferenze stampa che, se da un lato hanno esaltato i suoi fan internazionali per amenità come la ricrescita dei capelli, dall’altro sembrano aver irritato la popolazione canadese, desiderosa di avere risposte energiche contro lo spettro della disoccupazione.

Ai canadesi, poi, non sono piaciuti affatto i toni morbidi del paladino dei “diritti civili” e della lotta al riscaldamento globale di fronte alle violazioni e ai silenzi di Pechino. Un recente sondaggio ha rivelato che l’85% dei canadesi giudica non trasparente la gestione dell’epidemia da parte del regime, mentre l’88% non si fida del rispetto delle libertà e dello stato di diritto che vige in Cina. Dall’arresto di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria e figlia del fondatore di Huawei, avvenuto alla fine del 2018 all’aeroporto di Vancouver su mandato di cattura statunitense, tra i due Paesi si è aperta una vera e propria crisi diplomatica che è proseguita con l'arresto - nel mese successivo e senza alcun processo - di due cittadini canadesi, Michael Kovrig e Michael Spavor. La detenzione dei due nordamericani è parsa sin da subito un'evidente rappresaglia per l’arresto della figlia del colosso tecnologico, insieme al crollo degli scambi commerciali. Pechino non ha smesso di fare pressioni sul governo di Ottawa per il rilascio della Wanzhou, chiedendo di “garantire il suo rapido ritorno” per evitare ulteriori danni nelle relazioni bilaterali. Trudeau ha preferito mantenere un profilo basso e ha denunciato l’illegalità della detenzione dei suoi due connazionali soltanto quando messo alle strette dall’opposizione.

In un intervento parlamentare, il leader dei conservatori Scheer lo ha incalzato chiedendosi perché sia così difficile per lui condannare le azioni di Pechino, compresa la repressione delle libertà della popolazione di Hong Kong. Il sospetto di molti è che il governo liberal stia cercando in tutti i modi di non inimicarsi ulteriormente Xi Jinping, nella speranza di non vedere affossata la candidatura canadese per un seggio temporaneo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Trudeau, infatti, sembra ossessionato dall’idea di raggiungere questo agognato traguardo al punto che, per battere la concorrenza di Norvegia e Irlanda, la scorsa settimana è arrivato a criticare pubblicamente Israele per la proposta annessione di parti della Cisgiordania occupata, pur di strizzare l’occhio ai membri arabi dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Quindi, il suo governo sta facendo di tutto pur di non andare allo scontro frontale con Pechino e, al contrario, avanzare segnali distensivi come testimoniato dal ringraziamento pubblico del ministro degli Esteri, François-Philippe Champagne, per la donazione di mascherine e guanti da parte della Bank of China.

Ai canadesi - che lo scorso anno, almeno numericamente, gli avevano appunto preferito Scheer - risulta sempre più indigesto il protagonismo da star del loro primo ministro e le contestazioni arrivano anche da dove meno ci si aspetterebbe: le telecamere di tutto il mondo hanno registrato il momento in cui, durante la marcia di Black Lives Matter di Ottawa, il primo ministro si è inginocchiato; quasi nessuno, però, ha trasmesso le immagini di Trudeau costretto ad allontanarsi da Parliament Hill tra le contestazioni dei manifestanti che gli hanno urlato: “Go home blackface”. Gli attivisti canadesi scesi in piazza nella capitale, infatti, non hanno dimenticato la fotografia di un giovane primo ministro con la faccia colorata di nero durante l’interpretazione di una canzone giamaicana.