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STATI UNITI

Trump e il Gop alla resa finale. Per il destino Usa

Domani il collegio elettorale dei Grandi elettori è chiamato a ratificare il voto espresso dagli americani l'8 novembre che hanno scelto Donald Trump come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Ma il Gop è ancora spaccato e non sa quale Trump sia più repubblicano: quello rottamatore anti sistema della campagna elettorale o quello super conservatore del voto? 

Esteri 18_12_2016
Donald Trump

Chi è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America? Donald J. Trump. No, non fino a domani. Solo in quella data, infatti, il Collegio Elettorale dei “grandi elettori” messi in palio dai singoli Stati e scelti l’8 novembre dai cittadini americani si riunirà, secondo la Costituzione, per decidere il presidente federale e il suo vice. Il che significa che c’è ancora margine per consegnare la Casa Bianca ad altri. Normalmente la riunione del Collegio Elettorale è poco più di una formalità di ratifica, ma quest’anno sembra diverso. Quest’anno pesano ancora le profonde divisioni fra Trump e il Partito Repubblicano consumatesi durante le primarie. Di Trump infatti ve ne sono tre.

Il primo è Trump “l’alieno”, l’outsider completamente estraneo alla storia del Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani) e soprattutto a quella storia recentissima (emblematicamente dal 2010 a oggi) che ne ha fatto un ottimo partito conservatore. È il Trump dei primi mesi del 2016, quello che ha tenuto a distinguersi dagli altri candidati figli invece di quella storia conservatrice e che, giocando in contropiede, si è improvvisato “rottamatore”. Ha rischiato forte, ma, complice la divisione tra i suoi avversari, ha vinto. Perché Trump si è presentato nelle fila del GOP se alla storia del GOP è estraneo? Avendo bisogno di uno dei due partiti maggiori per evitare il binario morto di una candidatura indipendente, ha scelto quello che gli dava chance maggiori, cioè non quello che ha malgovernato il Paese per otto anni.

Il secondo Trump è quello inchinatosi a Canossa dopo essersi ricordato che da decenni nessun Repubblicano vince senza il movimento conservatore e senza l’oliatissima macchina del partito. È il Trump che, dopo avere spaccato i conservatori, ne ha invocato l’aiuto impegnandosi in maniera significativa, e inedita, sui “princìpi non negoziabili”. Questo Trump è quello che ha vinto l’8 novembre.

Il terzo Trump è quello che, dopo avere vinto, si rende conto non solo che un Repubblicano senza i conservatori perde, ma anche che senza il GOP conservatore che controlla il Congresso un presidente pur Repubblicano fatica a governare. Si spiegano così le nomine al governo di figure importanti del mondo conservatore e dell’establishment del GOP, un establishment che non è più quello liberal di un tempo ma quello conservatore di oggi. Solo che il secondo e il terzo Trump debbono ancora finire di fare i conti con i guai combinati dal primo, cui si aggiunge pure qualche passo falso più recente. Di conservatori, per esempio, nel nuovo governo ce n’è, ma forse non tanti quanti serve a farsi perdonare completamente; soprattutto se al loro posto entrano nomi troppo legati a una certa Wall Street o addirittura amici di Vladimir Putin come il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson.

È per tutto questo che nel 2016 i riflettori si sono accesi sul Collegio Elettorale di domani.

Per qualcuno il Collegio Elettorale è solo un’istituzione superata, ma i Padri fondatori lo vollero per impedire la “massificazione della democrazia” confermata da ciò che videro svolgersi nella Francia rivoluzionaria a partire da quel 1789 in cui vararono la Costituzione federale degli Stati Uniti. Uno dei più noti e aristocratici di quei fondatori, Alexander Hamilton (1755-1804), una sorta di “monarchico repubblicano”, uno dei tre autori degli 85 saggi raccolti come The Federalist (1788), base della scienza politica statunitense, il 7 aprile 1798 firmò con il suo pseudonimo “Titus Manlius” un articolo per il periodico The Stand in cui denunciava «[…] lo spettacolo disgustoso della Francia rivoluzionaria». E il suo partito, quello Federalista, quello del padre della patria George Washington (1732-1799), tra il giugno e il luglio di quello stesso anno licenziò quattro leggi, gli Alien and Sedition Acts, per tenere lontani gl’immigrati giacobini.

Per evitare la deriva populista e la pressione democraticista delle folle, i Padri istituirono appunto il “filtro” dei “grandi elettori” per effetto dei quali il presidente federale non lo eleggono i cittadini, ma gli Stati che compongo l’Unione. Ovviamente sono i cittadini che, votando, scelgono il presidente, ma i cittadini dei singoli Stati. Alla fine, dunque, conta non la somma assoluta dei voti popolari, ma la somma dei “grandi elettori” che Stato per Stato quei voti assegnano secondo il criterio maggioritario. Ebbene, il Collegio Elettorale gode di piena autonomia; esiste proprio come istituto “correttivo”. Se si esprimesse liberamente, non scipperebbe la democrazia poiché da sempre tutti gli americani sanno che con il proprio voto essi non eleggono affatto il presidente, ma un corpo costituzionale indipendente che sceglierà il presidente in autonomia. Il rapporto che lega i “grandi elettori” ai cittadini è infatti di pura e mera fiducia: i cittadini, votando, mostrano di fidarsi di loro. Se essi facessero da sé, non tradirebbe affatto tale fiducia.

Ora, quest’anno c’è l’anomalia Trump, cioè la stranezza dei tre Trump. Gli elettori che hanno votato per il secondo Trump l’8 novembre sono divisi in due gruppi che la livella delle urne ha reso apparentemente indistinguibili. Un gruppo di convinti anche del primo Trump e un gruppo di realisti decisi a fermare Hillary Clinton a ogni costo. Se dunque lunedì i “grandi elettori”, giudicando negativamente un’Amministrazione Trump come alcuni di loro fanno, volessero leggere dentro il voto dei Repubblicani realisti non trumpiani dell’8 novembre sconfiggendo la Clinton ma non premiando Trump, cioè per esempio scegliendo, visto che sono appunto in maggioranza Repubblicani per volere dei cittadini dei singoli Stati dell’Unione, un Repubblicano diverso dal terzo Trump, ne avrebbero facoltà. Come afferma l’autorevole E. J. Dionne Jr., liberal ma scrupolosamente attento al mondo conservatore, su The Washington Post è poco più di un esercizio teorico, ma che se ne parli parecchio è un segnale molto importante. Il primo a non doverlo sottovalutare dovrebbe essere proprio Trump: non perché abbia qualcosa da temere da lunedì, ma perché ha qualcosa da fare da martedì.