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«Ucciso per futili motivi» E i talkshow fan festa

I casi quotidiani di cronaca nera infiammano l'audience, ma fanno capire quanto la vita abbia perso valore con l'eclissi del cristianesimo.

Attualità 07_07_2011
cronaca nera
L’ennesimo ammazzamento per futili motivi fa la gioia dei talkshow di cronaca nera, ultimo grido nella caccia all’audience. Molte golose carriere salutano con esultanza ogni nuovo «caso», specialmente se è di quelli atti a tirarla lunga. Avetrana, la teen ginnasta, la prova del dna che riapre i cold case, Garlasco, Meredith e il sesso a tre…

Nuove professioni emergono, con gran vantaggio dell’occupazione. C’è l’assalto ai corsi di laurea in criminologia e a quelli di sgomitologia, atti a insegnare a coloro che porgono il microfono al p.m, alla p.r., a Ruby, a Samantha come avvicinare il più possibile lo strumento di lavoro alla bocca di uno o una che entra o esce da una Procura, in contemporanea con decine di altri intervistatori che cercano di fare lo stesso. I più deludenti tra i casi di nera sono quelli in cui si sa subito chi è il colpevole e perché. Infatti, è roba da redazione, che li tira via quotidianamente e l’indomani più non se ne parla.

Ebbene, a noi interessano proprio questi. Ci interessa sapere perché, appunto ormai quotidianamente, c’è un giovine che ammazza la ex dopo averla legata al letto nuda, e poi, visto che c’è, ammazza pure l’ex cognato. Perché c’è un pizzarolo che manda in coma un quindicenne mai visto prima con un colpo ben assestato di casco. Perché ci sono giovanotti che di mestiere fanno i black bloc, e si adunano come forza di pronto intervento in qualunque parte del mondo ci sia da scassare qualcosa e qualcuno da almeno ferire. Perché intere curve calcistiche sono in permanenza dedite alla professione di casseurs, e ogni tanto ci scappa l’accoltellato o il poliziotto preso a colpi di latrina in testa. Dacci oggi l’omicidio quotidiano, invocano gli anchormen e i giallisti (altra professione nuova e ormai fin troppo affollata). E sono esauditi con pronta abbondanza.

Qualche anno fa, invitato ai «Dialoghi di Trani», presentai un mio romanzo storico accanto a un rinomato giallista nazionale che presentava la sua, di opera. Io tessei l’elogio del romanzo storico, ricordando che il nostro romanzo «nazionale», I promessi sposi, appartiene al genere. Il giallista disse, invece, che la letteratura deve raccontare la realtà così com’è, riscuotendo applausi. Infatti, firmò tutte le sue copie; io, nemmeno una. Gomorra e Romanzo criminale, ecco cosa vuole «il pubblico». Potevo dire che, per Pio XII, l’arte deve elevare l’animo, non schiacciarlo nella mota. Ma non lo dissi, avrei fatto solo ridere (anche i preti, dato il papa citato). Ebbene, la realtà, come al solito, supera, almeno in quantità, la fantasia, e i poveri giallisti devono arrampicarsi sugli specchi per narrare di serial killers sempre più astuti e genialmente contorti, devono immaginare delitti sempre più perfetti, incuranti del fatto che il delitto perfetto non è mai esistito: esistono solo, semmai, colpevoli che non si trovano.

Ma la realtà quotidiana è fatta soprattutto di banalissimi omicidi d’impulso: lei vuole separarsi e lui no, così lui stermina lei, i figli per non vederli crescere a chissà chi, e pure la suocera, per motivi arcaici. La realtà è un banalissimo sfigato che, avendo visto troppi film pornografici, si è convinto che le donne non vedano l’ora, così mette le mani sulla ragazzina, quella non ci sta e a lui scappa l’omicidio preterintenzionale. La realtà è un ragazzo che ha lasciato la scuola perché il cinema e i rotocalchi l’hanno persuaso che la gioventù va goduta subito, e per farlo ci vogliono i soldi. Il resto è discoteca, happy hour, la squadra, la ganza, la “trasgressione” (la moda deve «sedurre», gridano gli stilisti). Ma la realtà è anche il carattere di lei e quello degli amici, la realtà è che i soldi li vogliono tutti e, da che mondo è mondo, non ci sono per tutti.

La realtà è che è dal Sessantotto che ci martellano, in modi che la storia non hai mai visto di più pervasivi, col concetto che la vita va goduta. E che non esiste il Giudizio ultraterreno. Il risultato è banale descriverlo, perché è cronaca quotidiana: il mio prossimo è un ostacolo, fosse anche solo perché esiste e, guarda un po’, ha le stesse pretese di «felicità» che ho io. Ecco riemergere l’antichissimo «mors tua vita mea» che solo il cristianesimo aveva provato a debellare, riuscendoci a malapena.

Senza la luce di Cristo, riecco le tenebre. Solo che quelle odierne sono speciali. Queste sono tenebre che la luce di Cristo l’hanno spenta. E il guaio è che non ce n’è un’altra. Così, «mors tua vita mea», fosse pure quella dell’altrui tifoseria, fosse pure quella del cugino molesto, fosse pure quella di uno che mi ha guardato storto (sì, di omicidi da «sguardo» ce ne sono, eccome).

La vita umana ha sempre meno valore, agli occhi nostri? Certo, anche perché è l’unica cosa che abbonda e supera le richieste di mercato. Non ci vanno predicando da decenni che siamo troppi? Sono riusciti nella predicazione e il concetto è diventato «di massa». Anche il buon vecchio suicidio è tornato in auge. Nelle classi alte, se ci si fa caso, non si uccide quasi più dai tempi del delitto Gucci. Semmai, c’è da registrare quasi una controtendenza, giacché sempre più spesso si sente di Vip convertitisi a Medjugorje o per pura riflessione. Questo dà speranza, perché sono le élites a dare, nel bene e nel male, l’esempio. Nel frattempo, chissà per quanto ancora dovremo aspettarci di finire ammazzati per un diverbio automobilistico (io stesso ho corso il rischio, e più volte) o vedere il vicino di casa portato via in manette per aver ucciso il padre pensionato che si rifiutava di dargli i soldi per la coca.