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EST EUROPA

Ucraina, Putin davanti a un bivio

Il governo russo ha accettato il risultato delle elezioni di Kiev ma le repubbliche separatiste vanno al voto il 2 novembre e la situazione diventerà complicata dal punto di vista diplomatico. Intanto Putin attacca duramente gli Stati Uniti, e si avvicina sempre più alla Cina.

Esteri 31_10_2014
Vladimir Putin

Il risultato previsto, e confermato, delle elezioni legislative in Ucraina è la smentita della principale accusa espressa da gennaio a ieri da Mosca: che neo-fascisti e neo-nazisti, squadristi di “Pravi Sector”, seguaci del nazionalista anti-sovietico Bandera, avevano preso il potere a Kiev nel “colpo di stato” fomentato dagli Stati Uniti. Proprio questo “oltraggio” alla gloriosa epopea dell’Armata russa nella Seconda Guerra mondiale è stato il pretesto del Cremlino per “liberare” dall’accerchiamento di un potere ostile la sua principale base marittima nel Mar Nero, in effetti per annettere la Crimea. Ed è stato motivo scatenante della ribellione degli ucraini russofoni delle regioni confinanti di Donetsk e Luhansk, divenuta una vera guerra che ha fatto finora quasi quattromila vittime. E della quale, pur dopo queste elezioni politiche, non si intravvede la fine.

Ora è alla luce del sole che alle elezioni gli ucraini non hanno premiato questi neo-fascisti e neo-nazisti, ma liste composte da persone –  a cominciare da quelle che fanno riferimento al presidente dello stato Petro Poroshenko – che hanno partecipato o condiviso la rivolta del Maidan e vogliono, come priorità, porre fine alla guerra nell’Est salvaguardando l’integrità territoriale della nazione; fare quindi delle riforme democratiche per aprirsi all’Europa e stabilendo corretti rapporti con  Mosca.  Dunque non sono entrati nella nuova Rada (Parlamento) gli estremisti di “Pravi Sektor”, come peraltro i comunisti, che vi erano presenti dal 1993. Forse quest’ultima esclusione sarebbe stata evitata se avessero potuto votare gli elettori delle regioni di Donetsk e Luhansk, dove invece i separatisti delle autoproclamate repubbliche russofile li hanno chiamati alle urne il 2 novembre per eleggere i primi presidenti e ben altri deputati.

Sarà questo un momento cruciale per capire come la Russia intende comportarsi per la soluzione del conflitto e confrontarsi con il mondo occidentale. Ha riconosciuto, con le dichiarazioni del ministro degli Esteri Sergeij Lavrov, i risultati delle elezioni in Ucraina «nonostante le numerose violazioni» nel corso della campagna elettorale. Ma se dovesse riconoscere, come sembra, anche quelle del 2 novembre che daranno legittimità alle due repubbliche separatiste, la situazione si complicherà di certo ancor più. I segnali in tal senso sono numerosi, e i più importanti vengono dal presidente Vladimir Putin. Venerdì scorso, proprio alla vigilia delle elezioni in Ucraina, chiudendo a Sochi l’undicesima conferenza internazionale del Valdai Discussion Club, ha avvertito che in questo paese non potrà esserci pace.  

Ha citato proprio l’Ucraina a esempio di quelle aree ai confini «di interesse geopolitico» nelle quali, per colpa degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, e a ragione dei loro interessi, si sta destabilizzando l’ordine mondiale; di conseguenza  non potranno non aumentare  «i rischi, l’instabilità e l’anarchia». «Non hanno voluto ascoltarci - ha detto -  e invece di un dialogo approfondito e civile, hanno spinto l’Ucraina fino al colpo di stato, gettato il paese nel caos, provocato la distruzione nei campi economico e sociale, la guerra civile e moltissime vittime».

E Kiev, ha aggiunto, «non mostra di voler risolvere attraverso un processo politico e negoziati il problema delle relazioni con il Sud-Est”, le regioni russofone di Donetz e Luhansk. E ha rincarato la dose: non la guerra scatenata dai separatisti, bensì «l’uso della forza di Kiev porta a un vicolo cieco». Se con queste prese di posizione Putin voleva dare un chiaro “avvertimento” agli elettori ucraini, adesso nel  nuovo Parlamento di Kiev sono in stragrande maggioranza  i detestati “nazionalisti” .

Il discorso di Sochi non è stato importante soltanto per quel che Putin ha detto sull’Ucraina ma anche per come ha illustrato la sua visione e la sua strategia politica in un “mondo che è cambiato” (frase che ha ripetuto più volte). Alcuni osservatori vi hanno ravvisato la fine di quel rapporto tra Occidente e Russia che si era lentamente stabilito dalla caduta dell’URSS in poi fino all’ingresso della Federazione russa nel G8.

Importante anche la sede: il Valdai Club, fondato da alcune fra le massime istituzioni pubbliche della Russia, ha lo status giuridico di fondazione ed  il compito di riunire una “élite” di esperti della sua politica estera (800 fra politici, accademici, studiosi, giornalisti di cinquanta nazioni, anche italiani) perché «ottengano informazioni da fonti affidabili», «le discutano nella diversità di vedute politiche e sociali» e incontrino «i top leader» della nazione. Ha preso il nome di Valdai dal lago della regione di Novgorod sulle cui rive nel 2004 si svolse la prima riunione. Al Forum convocato quest’anno a Sochi, fiore all’occhiello di Putin per lo svolgimento delle ultime Olimpiadi invernali, hanno partecipato fra gli altri, l’ex presidente della Commissione Europea ed ex premier italiano Romano Prodi, l’ex premier francese François Fillon e l’ex ministro tedesco della Difesa Wolker Rühe.  Putin è intervenuto due volte. 

Già all’apertura del Forum, Putin aveva affrontato il problema dell’Ucraina, spiegando in una vivace e spesso spiritosa discussione con Prodi, le ragioni del legame con la Russia, per «comuni tradizioni, comune mentalità, storia e cultura, simile lingua»: «Siamo un popolo» (solo), l’Ucraina essendo «parte della Grande Russia o del mondo russo-ucraino», aveva detto. «La storia ha poi fatto dell’Ucraina uno stato indipendente, che io rispetto» – «mai messo in discussione la sua sovranità» –  ma aveva voluto ricordare che il suo rapido sviluppo dopo la seconda Guerra Mondiale era avvenuto grazie ai miliardari investimenti in rubli dell’URSS. Aveva poi sostenuto che gli accordi di libero scambio tra Ucraina ed Unione Europea – alle origini della caduta a Kiev del regime filorusso di Viktor Yanukovic –  e quelli con la Moldavia e la Georgia, non potranno  avere per questi paesi effetti benefici. 

E a Prodi che accreditava invece la complementarietà tra la zona europea di libero scambio e l’EurAsEc (l’area di cooperazione economica tra Russia, Bielorussia e Kazakistan) paragonandola a quella che esiste tra caviale e vodka, aveva reagito: «Ma sono entrambi prodotti russi!». E a Prodi che incalzava: «Diciamo allora tra whisky e soda», aveva prontamente ribattuto: «Ma è una cattiva bibita perché il whisky va bevuto da solo!». Nessuna reazione alla proposta di Prodi di ristabilire migliori relazioni tra Russia ed Unione Europea cominciando con un programma “Erasmus”, ovvero con il coinvolgimento e lo scambio di giovani universitari. 

Nel discorso conclusivo del Forum Putin ha naturalmente parlato delle sanzioni economiche occidentali imposte alla Russia, ma non delle cause che le hanno provocate, quell’annessione della Crimea in violazione dell’accordo di Budapest del 1994 che la vedeva co-garante della sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina. «Ne stiamo soffrendo, ha ammesso, vogliono farci danno, isolarci, farci arretrare ma non ne chiederemo la rimozione, non ci porteranno ad alcun cambiamento di rotta. Non ci allontaneremo dai nostri partner europei ma nello stesso tempo ci stiamo organizzando, guardando anche altrove, alla Cina, all’Asia, ad altri paesi, a nuovi partner».  

Gli Stati Uniti, ha poi sostenuto, imponendo queste sanzioni «tagliano il ramo su cui sono seduti, perché minano la fiducia degli investitori nella valuta e nei titoli americani». «Sono evidenti in molti paesi i segni della delusione per i frutti della globalizzazione, un numero crescente di Stati tendono ad allontanarsi dalla dipendenza del dollaro e a creare sistemi alternativi, valute di riserva». Chiaro riferimento al «nuovo sistema di pagamenti internazionali», diverso dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale, appena avviato nell’ambito del BRICS (Brasile, Russia, Cina e India).  

Contro gli Stati Uniti Putin è stato durissimo; come ai tempi della Guerra fredda si è levata l’accusa di «creare il buono e il cattivo nell’ordine internazionale»;  di «sistematica distorsione delle verità»; di presentare «il proprio punto di vista come quello universalmente corretto»; di utilizzare la forza e la propaganda come «arma di ricatto»; di aver impiegato «grandi risorse nello spionaggio di leader mondiali»; di voler imporre la «posizione di leader esclusivo» e di portare quindi «gli alleati sulla strada ostile alla Russia», raffigurata addirittura «come l’impero del diavolo». Passando in rassegna gli scenari del Vicino e Medio Oriente ha ricordato che in Afghanistan «gli Stati Uniti crearono dei gruppi che combatterono contro i russi ed ora gridano “Al lupo, al lupo”. L’evocazione delle loro responsabilità in Siria (che «non esiste come paese normale») e in Libia ( «finita nel  precipizio») gli è poi servita per rinfacciare la nascita dell’estremismo islamico. 

Poi l’accusa a Washington di «fomentare la corsa agli armamenti» («ma non ci lasciamo intimidire»), temperata da un lato dal proposito di continuare i negoziati per la riduzione degli arsenali nucleari («ma le discussioni senza doppi standard devono essere serie») e dall’altro stemperata dall’avvertimento: «Ci sono altre armi allo studio e in fase di sviluppo» e «la Russia è leader nei nuovi sistemi». In questo gioco di chiaroscuri l’apertura a un «compromesso sulla sicurezza che eviti altre zone di instabilità» perché, infine, «siamo tutti sulla stessa barca».