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LA RIVELAZIONE DEL TIME

Un complotto per salvare la democrazia. Da Trump

A giudicare dallo schieramento compatto di media, grandi imprenditori e movimenti sociali contro Trump, si direbbe che c'è stato un complotto per fargli perdere le elezioni. Beh, a quanto pare c'è stato veramente. I suoi protagonisti se ne vantano sul Time, credendo di aver agito per la difesa della democrazia.

Esteri 06_02_2021 Español
Manifestazione contro Trump di Black Lives Matter

A giudicare dallo schieramento compatto di media, social network, degli imprenditori, delle piazze della contestazione e di tutte le istituzioni di controllo del voto contro Trump, si direbbe quasi che alle spalle della vittoria di Joe Biden ci sia stata una vasta cospirazione. Un po’ c’è stata. E sta iniziando ad emergere in tutti i suoi dettagli, raccontati dai protagonisti alla stampa amica, perché non celano l’entusiasmo per quel che hanno ottenuto. Con il lungo articolo “La storia segreta della campagna ombra che salvò le elezioni del 2020”, la giornalista Molly Ball (biografa della presidente della Camera Nancy Pelosi) descrive sul Time quel che è avvenuto, raccogliendo le testimonianze di tutte le figure chiave del piano.

La tesi che viene proposta dall’autrice e dai suoi intervistati è che Trump ha cercato di truccare il voto, ma lo sforzo congiunto di tutti gli uomini di buona volontà ha fermato il suo tentativo autoritario. Ma quel che si legge (neanche troppo fra le righe) è l’esatto contrario. Dall’articolo apprendiamo che vi è stato uno sforzo coordinato, durato più di un anno, per fermare Trump, sin dall’autunno del 2019. E siccome era impossibile stabilire a priori se il presidente avrebbe poi tentato di truccare le elezioni, quel che emerge è semplicemente una collusione di sindacati, imprenditori, media, big tech e movimenti di protesta per i diritti civili con uno dei due partiti in corsa, il Partito Democratico. Interessi politici ed economici potenti e diversissimi che hanno agito all’unisono contro un candidato.

Come scrive enfaticamente la Ball, “Il loro lavoro ha toccato ogni aspetto delle elezioni. Hanno convinto Stati a cambiare il loro sistema e leggi elettorali, hanno aiutato a raccogliere centinaia di milioni di fondi privati e pubblici. Hanno vinto cause che miravano alla soppressione dei voti, reclutati eserciti di operatori dei seggi e hanno indotto decine di milioni di persone a votare per posta per la prima volta”. A chi si riferisce questo “loro”? Il centro della trama, secondo la Ball, è uno stratega di Afl-Cio (la più grande federazione sindacale americana) Mike Podhorzer, consigliere del presidente del sindacato. Dal settembre 2019 avrebbe iniziato a creare un network di attori politici influenti per sventare “due potenziali esiti delle elezioni”, cioè la possibilità che Trump perdesse le elezioni e non lo ammettesse, oppure la possibilità che le vincesse “con i voti del Collegio Elettorale (nonostante la sconfitta al voto popolare) corrompendo il processo di voto negli Stati chiave”. Lo scenario di una genuina vittoria di Trump non è neppure preso in considerazione. Letto così, parrebbe un piano di emergenza per evitare un golpe trumpiano. Ma una parte politica che prepara piani di emergenza, con un anno di anticipo è, spesso, quando non sempre, la parte che sta preparando il golpe. Ogni golpe della storia, infatti, è condotto con le migliori intenzioni: sventare il colpo di Stato del nemico.

La rete messa in piedi da Podhorzer includeva soggetti potenti della sinistra: “Il movimento dei lavoratori, la sinistra istituzionale come Planned Parenthood e Greenpeace, gruppi di resistenza come Indivisible e MoveOn, esperti informatici e strateghi progressisti, organizzatori di base a livello statale, attivisti per la giustizia razziale e altri”.

I grandi social network Twitter e Facebook sono stati coinvolti nel piano sin dalle sue origini, nel novembre del 2019, quando Mark Zuckerberg (Facebook) e Jack Dorsey (Twitter) hanno incontrato attivisti progressisti per elaborare una strategia contro le “notizie false”. Laura Quinn, indicata nell’articolo come una “attivista progressista co-fondatrice di Catalist, ha iniziato a studiare il problema anni fa. Ha condotto uno progetto segreto che non era mai stato precedentemente discusso in pubblico, che tracciava la disinformazione online”. Laura Quinn è la mente dietro la strategia della censura. Dice infatti: “Quando vieni attaccato, l’istinto è quello di rispondere, dire, per esempio, ‘questo non è vero!’. Ma più ne parli, più il social network lo amplifica. L’algoritmo legge che ‘oh, questo è popolare, la gente ne vuole di più!’”. Allora la soluzione è “premere perché i social applichino le loro regole, sia rimuovendo i contenuti, sia gli account che diffondono la disinformazione e, in primo luogo, controllando in modo più aggressivo”. Fra gli avvocati che, forti di questi argomenti, hanno trattato con Zuckerberg e Dorsey c’era anche Vanita Gupta, presidente di Leadership Conference on Civil and Human Rights e attualmente cooptata dall’amministrazione Biden. Abbiamo visto come funziona questo meccanismo, all’atto pratico: l’account di Trump sospeso, notizie cancellate, ogni dubbio su brogli elettorali censurato dai social network. Oppure le persistenti notifiche di zelanti “fact checkers indipendenti” che contestano ogni cosa che gli utenti dicano a favore di Trump.

In questo piano, l’epidemia di Covid ha fornito il pretesto di cambiare il sistema di voto, pur senza introdurre vere e proprie leggi. Nel network di Podhorzer, Amber McReynolds, a capo del National Vote at Home Institute, è stata determinante per far accettare il voto postale esteso a tutti i cittadini, a prescindere dalla motivazione. Il sistema è stato accolto da 37 Stati e dal Distretto di Columbia (la capitale). La battaglia è stata anche legale, perché i Repubblicani hanno provato da subito ad impugnare. Ma gli avvocati democratici, complici i governi locali di sinistra, hanno prevalso. Il voto postale, che l’articolo del Time presenta come una “rivoluzione” ha interessato la metà dell’elettorato. E se c’è un tipo di voto che non si può controllare è quello postale (anche in Italia lo abbiamo potuto constatare con il voto degli italiani all’estero).

Ma è stato determinante soprattutto il movimento di Black Lives Matter, sotto molti aspetti. In primo luogo perché ha permesso di mobilitare molti attivisti, che sono diventati operatori ai seggi, scrutatori e non ben precisati servizi d’ordine “una forza di difensori delle elezioni che, contrariamente ai normali scrutatori, sono stati addestrati a tecniche di de-escalation”. Forse ne sanno qualcosa i rappresentanti di lista repubblicani che sono stati violentemente allontanati dai seggi. Ma è soprattutto dopo i violenti disordini di Black Lives Matter che Podhorzer ritiene di aver cooptato “uno strano alleato”, cioè gli imprenditori rappresentati dalla Camera di Commercio. Secondo lo stratega del sindacato, avrebbero formato "un’alleanza di lavoro e capitale" per salvaguardare la regolarità del voto e garantire la pace sociale. Ma quel che si legge è più che altro il successo di un’azione intimidatoria: “Con la tensione in crescita, c’era molta preoccupazione per un’eventuale rivolta al momento delle elezioni, o un collasso del modo consueto con cui gestiamo le elezioni contestate”, ha rivelato Neil Bradley, vicepresidente esecutivo della Camera.

Leggiamo inoltre che ben “150 gruppi liberal, dalla Women’s March al Sierra Club, da Color of Change a Democrats.com e Democratic Socialists of America, si sono aggregati alla coalizione Proteggi i Risultati. Il sito Web del gruppo, ora defunto, conteneva una mappa di 400 manifestazioni post-elettorali, da attivare via messaggio già il 4 novembre. Per fermare il golpe che temevano, le organizzazioni di sinistra erano pronte a invadere le strade”. Strano il giudizio che gli intervistati danno della copertura mediatica (visibilmente di parte) delle elezioni: “Fox News ha sorpreso tutti assegnando la vittoria dell’Arizona a Biden (quando ancora era contato solo il 40% dei voti, ndr). La campagna di sensibilizzazione del pubblico aveva funzionato: i conduttori televisivi si facevano in quattro per consigliare cautela e inquadrare accuratamente il conteggio dei voti”. Un giudizio simile non ha senso, a meno che non lo si legga alla luce dei piani di protesta di massa: anche i media temevano la destabilizzazione, evidentemente. Se avessero annunciato una vittoria di Trump avrebbero scatenato l'inferno. Ma è questo il modo di "salvare la democrazia"?