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FESTA DELLA DONNA

Un direttore al femminile svela la guerra al reale

Le polemiche sul direttore d'orchestra donna che a Sanremo ha detto di non voler essere chiamata direttrice. Non è sufficiente il mutamento culturale per giustificare i mutamenti linguistici perché non tutti i cambiamenti culturali sono da accettare. Spesso la spiegazione sta nella realtà. Ad esempio nel mondo della musica sono pochi i maschi interessati alla carriera di arpista. 

Editoriali 08_03_2021

La Festa della donna negli anni è diventata sempre più l’occasione per far la festa non solo agli uomini, ma anche a tutti coloro che, portatori sani di buon senso, non riescono proprio a conformarsi al senso comune.

E se di donne vogliamo parlare, citiamo la musicista Beatrice Venezi, direttore d’orchestra riconosciuta a livello internazionale. Il maestro Venezi ha rivestito i panni di presentatrice a Sanremo insieme ad Amadeus e Fiorello per la finale delle Nuove Proposte. Sul palco dell’Ariston ha confessato: «Mi assumo la responsabilità di quello che dico. Io sono e voglio essere chiamata direttore d’orchestra. Conta il percorso, la preparazione e l’obiettivo».

Come mettere la testa sul ceppo. E infatti, con prevedibile riflesso pavloviano, i social sono insorti: un insulto alle donne, un passo indietro del femminismo, cose da medioevo e via sbadigliando. Anche i giornali hanno commentato, perché ormai è l’ovvio a tenere sempre più banco nei media. Tra i vari commenti evidenziamo quello di Giuseppe Antonelli sul Corriere della Sera. Il titolo è un’ottima sintesi del pezzo: «Perché Beatrice Venezi ha steccato a Sanremo. Giusto dire direttrice (come infermiera)». La tesi di Antonelli è semplice: dato c’è la declinazione femminile di molti mestieri – infermiere/infermiera, imitatore/imitatrice, attore/attrice – non si vede perché non si debba usare «direttrice di orchestra» quando la bacchetta è tenuta in mano da una donna.

Il femminile di alcuni sostantivi – vogliamo così glossare la spiegazione del giornalista – si è fatto largo, spesso a fatica, nell’arco degli anni, dei decenni, a volte dei secoli, perché la lingua è lo specchio della cultura. Se questa cambia, muta pure la lingua. E a volte i cambiamenti maturano lentamente. Rifiutare il femminile di alcuni termini è sintomo di vivere nel passato, di essere retrivi culturalmente.

La nostra replica. Vero, la lingua muta al mutar della cultura. Da qui una prima riflessione. Non tutti i mutamenti culturali sono benedetti – che dire dell’antisemitismo di un tempo assai diffuso? – e dunque non tutti i mutamenti linguistici, specchio fedele di tali cambiamenti, sono da apprezzare. In breve: non è sufficiente constatare che un tale parola o espressione è diventata di uso comune per concludere che, dal punto di vista morale, è da accettare.

Seconda riflessione. Perché si usa «direttrice di un istituto» e non si usa «direttrice d’orchestra»? La mentalità italica sessista e discriminatrice avrebbe dovuto cassare anche il primo uso, eppure non è così. Non si usa «direttrice d’orchestra» perché sono pochissime le donne che salgono sul podio, a differenza delle donne a capo di istituti di varia natura. E perché sono poche? Non per motivi discriminatori e quindi non perché i conservatori non fanno diplomare nei corsi di direzione di orchestra le donne – cosa impensabile dato che culturalmente il cuore della quasi totalità dei docenti del conservatorio batte a sinistra – ma per un semplice motivo: sono poche le donne interessate a questa carriera. Non è sessismo, ma realismo confortato dai numeri, i quali numeri rimandano, a monte, ad una questione antropologica di inclinazione naturale di carattere generale.

Tutto qui, non c’entra la frusta e marxiana idea della sovrastruttura sociale e culturale che mette all’angolo le donne. Va da sé che anche i maschietti scarseggiano di alcune inclinazioni naturali in campo musicale: pochi gli arpisti. Uomini e donne sono diversi anche in merito alla sensibilità musicale, ma non vuol dire, banale a dirsi, che gli uni siano migliori delle altre. E ciò non significa poi che le poche donne sul podio non possano essere bravissime e che quindi la Venezi non possa essere eccellente come direttore. Quello è un altro discorso. Qui stiamo solo discettando sul fatto che non si usa l’espressione «direttrice di orchestra».

Ma a volte le parole resistono ai cambiamenti sociali, anche le parole legate alle professioni. Antonelli s’indispettisce perché non sono entrati nell’uso comune termini come «architetta, avvocata, notaia, ingegnera». Per la regola prima indicata dovrebbero ormai comparire accanto alla loro variante maschile, dato che ci sono ormai molte donne che svolgono queste professioni, eppure non è così. Per quale motivo? Perché ormai sono parole asessuate, sono termini epiceni dato che sono lemmi che indicano una professione, più che il sesso delle persone che svolgono quel lavoro. La parola «avvocato» al pari di «giudice» rimanda più al mondo professionale forense, che ai cromosomi XX o XY di chi veste la toga. E dato che quelle professioni, una volta, erano svolte esclusivamente da uomini, il genere grammaticale maschile ha impresso il suo conio a quel mestiere. Ciò è tanto vero che le stesse dirette interessate, nella maggior parte dei casi, non vorrebbero mai essere chiamate architetta, notaia, giudicessa e pompiera.

Ma Antonelli non si impensierisca più di tanto. C’è per lui ancora speranza. Infatti la lotta alle parole sferrata da molte femministe e dagli attivisti LGBT rivela, ancora una volta, la volontà di muover guerra al reale. Chiaro è che se questa lotta risultasse efficace sul piano delle idee e quindi anche sul piano degli usi linguistici che ne sono lo specchio, domani la Venezi potrebbe essere chiamata «direttrice d’orchestra» nonostante il numero esiguo di donne con la bacchetta in mano. Al che dal loggione dovremmo così gridare al suo indirizzo al termine di un concerto: «Bis, maestra!».