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LA CDF SUL BATTESIMO

Una nota condanna la liturgia fai da te. Ma ora si applichi

La Congregazione per la Dottrina della Fede, nel Responsum del 6 agosto, ha chiarito che non sono valide formule arbitrarie come «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» e che è necessario battezzare «in forma assoluta». Nella collegata Nota dottrinale, si ricorda che i Sacramenti non sono soggetti ai gusti personali ma vanno amministrati in fedeltà a Cristo che li ha istituiti. Un documento realmente cattolico, da applicare sempre.

Ecclesia 08_08_2020 English Español

Ogni tanto, nell’asfissia generale, il Signore ci dona qualche boccata di aria fresca, l’aria dello Spirito Santo che continua a soffiare nella sua Chiesa, nonostante tutto. A leggere il Responsum del 6 agosto scorso della Congregazione per la Dottrina della Fede sembra quasi di vivere ancora nella Chiesa cattolica...

La Congregazione è stata interrogata circa la validità del Battesimo amministrato secondo una nuova formula, evidentemente venuta in mente a qualche ministro che non sopporta «più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa» (2Tm 4, 3) di nuovo, finisce per seguire le proprie voglie. La formula indagata è la seguente: «Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». La CdF risponde negando la validità del Battesimo così amministrato e la conseguente necessità di (ri)battezzare in «forma assoluta».

Che cosa significa quest’ultima precisazione? La Chiesa insegna che «i sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’ordine, in quanto imprimono il carattere, non possono essere ripetuti» (Can. 845, §1). Per questa ragione, se dovesse persistere «il dubbio prudente che i sacramenti di cui nel §1 siano stati dati veramente o validamente, vengano conferiti sotto condizione». Qualora non si riesca a comprovare che una persona sia stata di fatto battezzata, cresimata o ordinata (revera) o se vi siano dubbi quanto alla validità della celebrazione (valide), quanto alla materia, alla forma o all’intenzione del ministro o dell’adulto che riceve il sacramento, allora si procede ad amministrare “nuovamente” tale sacramento sotto condizione, ossia “a condizione che il soggetto non sia stato ancora battezzato o cresimato o ordinato”.

Dunque, il fatto che la Congregazione risponda che, nel caso ad essa presentato, il Battesimo vada conferito in forma assoluta, significa che non sussiste alcun dubbio sul fatto che la formula utilizzata sia del tutto invalida. Nel 2008, sotto il pontificato di Benedetto XVI, la Congregazione aveva già comunicato le medesime risposte alla richiesta se fosse valido e se dovessero essere battezzate in forma assoluta quanti avevano “ricevuto il Battesimo” con formule non trinitarie, come le seguenti: «I baptize you in the name of the Creator, and of the Redeemer (or Liberator), and of the Sanctifier (or Sustainer)».

Il Responsum del 6 agosto viene accompagnato da un’interessante Nota dottrinale, che spiega il contesto e le ragioni della risposta. «Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: “A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”», tanta è la fantasia e la disobbedienza degli uomini. Le ragioni addotte per l’utilizzo di questa formula “familiare” poggerebbero sulla volontà di «sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità, che la formula presente nel Rituale Romano veicolerebbe».

La Nota denuncia che dietro queste «discutibili motivazioni di ordine pastorale» si nasconde di fatto «un’antica tentazione di sostituire la formula consegnata dalla Tradizione con altri testi giudicati più idonei». Si tratta di fatto di quel “secondo me”, che da decenni sta invadendo il mondo della liturgia, della fede e della morale, finendo inevitabilmente per disintegrare l’unità della Chiesa. In una nota a piè di pagina, il documento denuncia proprio una «deriva soggettivistica e una volontà manipolatrice», e indica il modo corretto di intendere e vivere la liturgia, richiamando un incisivo testo tratto dall’Introduzione alla preghiera di Romano Guardini: «[il credente] deve aprirsi a un altro impulso, di più possente e profonda origine, venuto dal cuore della Chiesa che batte attraverso i secoli. Qui non conta ciò che personalmente gli piace o in quel momento gli sembra desiderabile…».

Non solo il fedele o il sacerdote non possono imporre la propria convinzione o gusto personale nella liturgia e nella celebrazione dei Sacramenti, ma persino la Chiesa stessa «sebbene sia costituita dallo Spirito Santo interprete della Parola di Dio e possa in una certa misura determinare i riti che esprimono la grazia sacramentale offerta da Cristo, non dispone dei fondamenti stessi del suo esistere: la Parola di Dio e i gesti salvifici di Cristo». Perché la Chiesa è la Sposa di Cristo, non la sua padrona, e a Cristo dev’essere fedele. «Risulta pertanto comprensibile come nel corso dei secoli la Chiesa abbia custodito con cura la forma celebrativa dei Sacramenti, soprattutto in quegli elementi che la Scrittura attesta e che permettono di riconoscere con assoluta evidenza il gesto di Cristo nell’azione rituale della Chiesa». La formula del Battesimo è uno di questi elementi, e lo stesso si deve dire dell’ordinazione esclusiva di persone di sesso maschile o dell’indissolubilità del sacramento del matrimonio. La Chiesa non può cambiare, e perciò non vuole, per fedeltà a Cristo. Richiamando la profonda unità tra il Concilio di Trento (che evidentemente è ancora valido...) e il Vaticano II, la Nota ribadisce «l’assoluta indisponibilità del settenario sacramentale all’azione della Chiesa. I Sacramenti, infatti, in quanto istituiti da Gesù Cristo, sono affidati alla Chiesa perché siano da essa custoditi». Custoditi e non stravolti.

Altro rilievo di grande importanza: «Il Concilio Vaticano II ha inoltre stabilito che nessuno “anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (SC 22 §3). Modificare di propria iniziativa la forma celebrativa di un Sacramento non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo, che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto (cfr. 1 Cor 15, 3)».

Una meraviglia. L’azione liturgico-sacramentale della Chiesa è la comunione della Chiesa in atto: comunione con Cristo, prima di tutto, che dev’essere reso “visibile” nell’azione sacramentale, nella sua realtà teandrica; comunione “verticale”, con la Chiesa gloriosa; e infine comunione “orizzontale”, della Chiesa oggi e nei secoli. L’abuso liturgico si colloca pertanto come una ferita, più o meno grave, alla triplice dimensione della comunione ecclesiale e diviene ostacolo al riconoscimento dell’azione di Cristo nella Chiesa.

Pertanto, continua la Nota, «nella celebrazione dei Sacramenti [...] il soggetto è la Chiesa-Corpo di Cristo insieme al suo Capo, che si manifesta nella concreta assemblea radunata. Tale assemblea però agisce ministerialmente - non collegialmente - perché nessun gruppo può fare di se stesso Chiesa [...]. Il ministro è quindi [...] un segno esteriore della sottrazione del Sacramento al nostro disporne e del suo carattere relativo alla Chiesa universale». Per poter essere questo segno, non basta che il ministro sia presente; esso deve conformarsi all’intenzione della Chiesa e tale «intenzione non può però rimanere solo a livello interiore, con il rischio di derive soggettivistiche, ma si esprime nell’atto esteriore che viene posto» e questo atto, appunto, dev’essere sottratto all’arbitrio personale, alla sensibilità di un gruppo o di un’epoca. «Alterare la formula sacramentale significa [...] non comprendere la natura stessa del ministero ecclesiale, che è sempre servizio a Dio e al suo popolo e non esercizio di un potere che giunge alla manipolazione di ciò che è stato affidato alla Chiesa con un atto che appartiene alla Tradizione».

Tutto da sottoscrivere, riga per riga. Bisognerebbe però, a questo punto, domandarsi come sia possibile che proprio nei seminari, nelle facoltà teologiche e nelle cattedrali - per non parlare di parrocchie e santuari -, l’arbitrio, il soggettivismo, l’abuso siano ormai la norma. Chiesa che vai, Messa e sacramenti che trovi. Altro che riconoscibilità di Cristo e comunione della Chiesa.

È troppo chiedere di rendere effettivamente operativa questa Nota? E non solo nei casi più gravi, ma anche in quelli “lievi”, che pure deturpano l’azione sacramentale della Chiesa e ne disintegrano l’unità?