Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Agnese da Montepulciano a cura di Ermes Dovico

CAMPAGNA DI REPUBBLICA

Veronesi rilancia: eutanasia anche per i depressi

Dopo il teologo Kung, l’infermiere Michele, adesso tocca all'oncologo Umberto Veronesi. La campagna di Repubblica per l'eutanasia corre come un treno che imbarca sempre nuovi passeggeri.  Veronesi ripete i dati farlocchi sull’eutanasia silenziosa, e rilancia: anche i malati psichici hanno diritto all’iniezione letale.

Vita e bioetica 28_02_2015
Il professor Umberto Veronesi

Puntuale e preciso come un bisturi al laser (ci veniva da scrivere come la morte) Umberto Veronesi è piombato come un aquilotto (ci veniva da scrivere come un avvoltoio) sulla campagna promozionale per l’eutanasia legale lanciata da Repubblica. L’oncologo, già collaudato e super gettonato sul tema, griffa un pezzo per elogiare la «bellissima testimonianza dell’infermiere Michele pubblicata coraggiosamente su queste pagine» (clicca qui).  E per reclamare, ancora una volta, una legislazione che offra copertura e impunità a medici e infermieri che praticano l’omicidio assistito. «È giusto prolungare di qualche giorno, settimana o mese, un’esistenza che è soltanto una serie di interminabili minuti di dolore a causa di una malattia terminale?», si chiede il professore, truccando un’altra volta le carte e giocando a bella posta a confondere accanimento terapeutico ed eutanasia. 

Da qui la reiterata richiesta di una legge sul testamento biologico, in modo da eliminare ogni responsabilità e rischio per i medici e rispettare alle lettera la volontà del malato. Il solo autorizzato a decidere quando e come uscire dalla vita quando «una malattia senza alcuna speranza la renda insopportabile per il dolore fisico e la sofferenza psicologica». Notate quella “sofferenza psicologica”: basta una depressione per autorizzare l’iniezione letale.  Per impedire, dice Veronesi, anche il ripetersi di strazi come quelli di Eluana Englaro «che restò in coma vegetativo permanente per quasi vent’anni, finché il padre Beppe riuscì ad ottenere l’interruzione della vita artificiale».

L’importante per il professore è che si faccia presto, che il Parlamento si decide a legiferare sul testamento biologico e a liberalizzare l’eutanasia, perché «in assenza di regole viene calpestato in Italia il sacrosanto diritto di non soffrire». Cioè, non il diritto a tutte le migliori cure ma solo quello di togliersi la vita. Nessuna sorpresa, il number one dei chirurghi anticancro ci ha ormai abituato a queste campagne mortifere: aborto, droga, fecondazione artificiale, clonazione, eutanasia: da anni il professore ha abbandonato la sala operatoria per diffondere a tempo pieno il verbo della tecnoscienza con una crescente mole di iniziative, saggi, libri con una vitalità (non è una battuta) davvero stupefacente.

Oggi in molti ospedali, dicono i fans della punturina al cianuro, i medici praticano “l’abbandono terapeutico”: lasciano cioè morire il paziente o gli somministrano dosi sempre più massicce di morfina fino a farlo crepare. Ma si tratta, di una “mezza eutanasia”, e senza che nessuno chieda nulla al malato. Lo dicono loro, ma dati certi non ce ne sono e quelli che vengono forniti non hanno alcun fondamento statistico. Le cifre potrebbero essere anche inventate perché vengono buone ai promoter della dolce morte per manipolare periodicamente l’opinione pubblica e orientarla in quel senso.  Tutto è lecito, anche inventarsi inesistenti “accanimenti” per tenere in vita pazienti già tecnicamente morti, solo per allungargli il calvario per qualche giorno o un mese al massimo.

Lo raccontava il fantomatico infermiere Michele, intervistato l’altro giorno da Repubblica, lo ripete pari pari l’oncologo Veronesi. Ma a smentirlo è uno che impegnato nello stesso fronte eutanasico ma senza bisogno di propalare panzane. È Mario Riccio dell’associazione Coscioni, il medico rianimatore che seguì Piergiorgio Welby. «Non è vero», dice Riccio, «che tutti coloro ai quali si interrompono le cure sono destinati a morire in pochi giorni. Nei corridoi degli ospedali prendiamo in tre quattro, giorni decisioni che per Englaro hanno richiesto anni». Beh, almeno questo medico ha il coraggio della verità: l’eutanasia non è per quelli che hanno poche ore di vita.

A fare un po’ di chiarezza interviene Massimo Antonelli, primario al Gemelli di Roma e presidente della Società scientifica degli anestesisti. «L’eutanasia», spiega, «è l’azione del medico che uccide intenzionalmente una persona somministrando farmaci e assecondando le richieste del paziente: un procedimento attivo. Altra cosa è la desistenza terapeutica. Bisogna avere la capacità di comprendere quando le cure offerte al malato sono straordinarie o sproporzionate. Proseguendole si rischia l’accanimento terapeutico». Insomma, Michele ha dato (intenzionalmente?) i numeri sull’eutanasia “silenziosa” già praticata oggi negli ospedali e anche al professor Veronesi ci mette tutto del suo per dare autorevolezza e dignità alla grande bugia.

Repubblica, come al solito, si limita a fare la buca delle lettere, a rilanciare tesi e dati senza andare a vedere se le cose stanno davvero così. Tantomeno ci preoccupa di garantire lo stesso spazio di parola a chi non la pensa come l’esimio professore Veronesi e lo sconosciuto infermiere. Così lavora la “macchina del fango” della sinistra mediatica e house organ dei nuovi padroni del vapore. La “dolce” morte di malati terminali o pazienti con il mal di vivere prima o poi diventerà legge e  Repubblica la saluterà come il trionfo della ragione laica e libertaria contro l’arcigna morale cattolica. Intanto si porta avanti, praticando l’eutanasia quotidiana sulla buona informazione.