Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Atanasio a cura di Ermes Dovico
CINA

A Shanghai inciampa il gigante dai piedi d'argilla

Il crollo della Borsa di Shanghai interessa meno rispetto alla crisi economica della vicina Grecia, ma le sue dimensioni sono impressionanti. La Cina è sempre stata vista come il paese in via di sviluppo più promettente, anche rispetto all'India. Ma il rischio è che la sua crescita sia fragile.

Editoriali 09_07_2015
Shanghai, crollo in Borsa

Dopo aver fatto registrare una crescita del 150% nei dodici mesi precedenti, dal 12 giugno scorso a oggi la Borsa di Shanghai ha perso il 30% del suo valore complessivo. L’8% nella sola giornata di ieri (che a causa della diversa longitudine corrisponde circa all’altra notte e alla mattina del nostro ieri). Nel frattempo qui da noi l’unica Borsa che faceva notizia era quella di Atene, che sta alla Borsa di Shanghai come un trenino elettrico sta a un treno vero.

Adesso però tanto strabismo non è più possibile. Ieri a Shanghai cinquecento imprese quotate si sono ritirate dal listino nel tentativo di sottrarsi alla caduta dei valori in corso, cui finora le autorità di borsa non sono riuscite a frenare. Si sono ormai ritirate circa 1300 imprese, quasi la metà delle più importanti. In Cina, diversamente da quanto ormai accade in Occidente, il grosso di coloro che investono in borsa consiste di piccoli operatori (che si stima siano 90 milioni di persone) più facili a lasciarsi prendere dal panico di quanto lo siano gli investitori professionali. Perciò il rischio di uno sconquasso dell’economia cinese non è remoto. Per contrastarlo il governo di Pechino ha ordinato a tutti i grandi gruppi industriali, finanziari e assicurativi di cui è proprietario non soltanto di non vendere titoli ma anzi di comprarne. Frattanto perdite si sono registrate per contraccolpo nelle altre maggiori Borse dell’Estremo Oriente e dell’Oceania, da Hong Kong a Tokyo e a Sidney.

Dei due giganti demografici che negli ultimi decenni si sono affacciati da protagonisti sulla scena dell’economia mondiale, la Cina e l’India, la prima ha sempre fatto più notizia della seconda. Ciò si deve non solo al più rapido ritmo di sviluppo che la Cina ha fatto registrare, ma anche e in primo luogo alle due diverse scelte di fondo che dall’origine ne hanno caratterizzato la rispettiva politica economica. La Cina ha puntato in via prioritaria alla conquista dei mercati internazionali, con tutto ciò che ne deriva in termini di squilibrata e relativamente scarsa crescita del suo mercato interno. L’India invece ha puntato in primo luogo alla crescita del mercato interno.  Nell’immediato la Cina ha avuto più successo dell’India, ma a lungo termine la scelta di quest’ ultima dovrebbe rivelarsi più fruttuosa. Paradossalmente infatti il modello cinese ha nel proprio successo la chiave della propria crisi. Nella misura in cui infatti i prodotti cinesi conquistano i mercati dei Paesi con maggior potere d’acquisto, l’industria di questi Paesi declina causando un corrispondente declino dei loro consumi; e quindi una contrazione delle esportazioni cinesi. Il drago cinese insomma finisce per mordersi la coda.

A questo punto comincia ad attuarsi anche un’altra potenzialità negativa: finché un regime, pur autoritario e fortemente repressivo, riesce a garantire un alto tasso di crescita (nel caso della Cina addirittura a due cifre) un sufficiente consenso popolare è comunque assicurato. Ciò può essere triste ma è vero: fin l’esperienza del fascismo e del nazismo nell’Europa degli anni ’30 lo confermano. Quando però il tasso di crescita scende in misura consistente, allora il disagio nei confronti della dittatura tende a diventare di massa: molto di ciò che si era disposti a sopportare comincia a divenire insopportabile. C’è quindi da temere che in Cina l’eventuale crisi economica provochi una seria crisi politico-sociale, l’una e l’altra proporzionate alle enormi dimensioni del Paese.

I diretti contraccolpi in sede internazionale dovrebbero comunque essere minimi; i titoli quotati sulla Borsa di Shanghai sono infatti quasi esclusivamente in possesso di risparmiatori cinesi. E anche nella sfera dell’economia reale tali contraccolpi dovrebbero essere relativamente limitati considerando che la Cina è un Paese che esporta moltissimo ma (in valore relativo, beninteso) importa pochissimo. Questo non toglie che, in un momento già difficile per l’economia internazionale, non c’era di certo bisogno anche di questa ulteriore crisi. Al di là delle urgenze del momento ciò conferma in ogni caso che, tra i due giganti demografici dell’Estremo Oriente, varrebbe la pena di puntare di più sull’India che ha fatto scelte di politica economica più sagge e che, essendo una democrazia, è più in grado di reggere le crisi senza pericolose lacerazioni. Anche per questi motivi – osserviamo per inciso - converrebbe risolvere al più presto il pasticcio dei nostri due fanti di Marina sotto processo in India. Una soluzione accettabile e onorevole non è impossibile; e sta anche diventando urgente sia per loro, come persone, che per il nostro Paese.