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USA

Aborto telecomandato, il Coronavirus non ferma l'industria

Aborto da casa, con la telemedicina, per ovviare alle carenze negli ospedali causa Coronavirus. La proposta arriva dagli Usa e considera la possibilità che la pandemia possa - sia per ragioni di sovraccarico sanitario sia per i rischi d’infezione che può determinare il frequentare in questo periodo gli ospedali - ostacolare il ricorso alla pratica abortiva. 

Vita e bioetica 26_03_2020

Tra i disagi ospedalieri che il coronavirus potrebbe determinare, almeno all’estero dato che in Italia non sembra ciò stia avvenendo, c’è quello di un rallentamento dei aborti. Il che, ovviamente, rappresenterebbe una delle poche buone notizie di questa fase emergenziale, se non fosse che il fronte abortista pare stia già valutando un piano b: l’aborto da casa, con la telemedicina.

La proposta arriva dagli Usa, e precisamente da un articolo apparso sul periodico liberal Mother Jones a firma di Becca Andrews, con cui si evidenzia quello che viene evidentemente considerato un problema, ossia la possibilità che la pandemia possa, sia per ragioni di sovraccarico sanitario sia per i rischi d’infezione che può determinare il frequentare in questo periodo gli ospedali, ostacolare il ricorso alla pratica abortiva.

Fatta questa considerazione, viene subito indicata una possibile soluzione, ossia la telemedicina, pratica che come noto si sostanzia nell’opzione che vede i medici guidare, via webcam, la somministrazione di farmaci. In questo caso, il riferimento è alla pillola abortiva Ru486, che a dispetto del nome prevede l’assunzione di due distinti preparati: il mifepristone, che contrasta l’azione dell’ormone della gravidanza, il progesterone, e dopo due giorni il misoprostolo, il cui scopo è quello di stimolare le contrazioni uterine onde provocare l’espulsione del concepito.

Inutile qui ricordare che, oltre ad essere un prodotto chimico volto ad uccidere - e perciò totalmente inaccettabile sotto il profilo etico – si tratta di una soluzione, come chiariva già nel 2005 un editoriale apparso sul New England Journal of Medicine, che presenta per la donna una tasso di mortalità dieci volte superiore a quello dell’aborto chirurgico, che provoca dolori, nausea, debolezza e crampi quasi nel 94% dei casi e che, almeno una volta su due, costringe le donne che vi ricorrono alla vista del feto abortito, con tutti le devastanti ripercussioni psicologiche che si possono intuire.

Non è un caso, pur essendo legale da vent’anni negli Stati Uniti, che in ben 18 Stati l’aborto domestico via telemedicina sia gravato da restrizioni. Eppure è su questa carta che sta puntando l’abortismo a stelle e strisce, con Daniel Grossman, direttore del gruppo di ricerca Advancing New Standards in Reproductive Health, citato nel pezzo della Andrews, che ha definito la telemedicina la «soluzione perfetta» per le donne che in questo periodo intendono abortire. Nella speranza che un simile, folle proposito non si faccia largo anche tra gli abortisti di casa nostra, urge qui ribadire un passaggio fondamentale.

Ci si riferisce al fatto che, pur essendo eseguito in strutture sanitarie da medici, l’aborto non è un atto medico stricto sensu né lo potrà mai essere, dato che la gravidanza non è una patologia, bensì una condizione della donna e del suo bambino. Ne consegue come, se valutare e potenziare il ricorso alla telemedicina potrebbe effettivamente essere utile in questa fase emergenziale – non a caso, a parlarne, è da giorni uno specialista come il prof. Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano -, l’aborto debba essere tenuto ben distinto e distante da tutto ciò.

Il perché di questo lo spiega, o meglio ripete, Ippocrate di Kos, celebre medico greco il cui giuramento recita: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Ora, che Ippocrate avesse ragione da vendere, nell’assumere questa netta posizione, lo prova a millenni di distanza l’elevata percentuale di personale sanitario obiettore, che con lo squallore della pratica abortiva non vuole aver nulla a che spartire.

Ne consegue la necessità, qualora si arrivasse anche in Italia a chiedere la follia dell’aborto con telemedicina – speriamo ovviamente non accada -, di prepararsi subito a difendere la tele-obiezione di coscienza. Perché, anche se si fa di tutto per tacerlo, il problema dell’aborto non è come e quando viene praticato; il problema dell’aborto è l’aborto stesso, un atto di atroce violenza che ha nell’indifeso nascituro la sua vittima. E proprio non c’è, rispetto a questo drammatico dato di realtà, tecnologia che tenga.