Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Caterina da Siena a cura di Ermes Dovico
KENYA

Accuse e sospetti, troppe le ombre sul massacro

Le vittime di Garissa verranno presto dimenticate: forse prima di tutto proprio in Kenya. I raid aerei contro presunte basi di al Shabaab, in realtà hanno colpito zone in cui i miliziani non c’erano, ma soprattutto sotto accusa sono leader africani per la loro assenza e indifferenza al massacro dei cristiani.

Esteri 09_04_2015
I corpi degli studenti cristiani dell'università di Garissa

Si sono conclusi con una veglia, in Kenya, i tre giorni di lutto nazionale per le 148 vittime – quasi tutti studenti – dell’attacco terroristico del 2 aprile al campus universitario di Garissa. Centinaia di studenti hanno sfilato per le strade della capitale Nairobi il 7 aprile per chiedere sicurezza nei campus e a Garissa una marcia ha visto la partecipazione di circa 2.500 persone, cristiani e musulmani uniti nel lutto. Ma altre notizie già richiamano l’attenzione verso altre parti del mondo, verso nuove tragedie: in Nigeria, 50 morti e un villaggio per metà dato alle fiamme domenica scorsa da miliziani Boko Haram, arrivati travestiti da predicatori per non destare sospetti, in Siria 18.000 palestinesi, migliaia dei quali bambini, intrappolati nel campo profughi di Yarmouk raggiunto dai jihadisti del Isis. 

Le vittime di Garissa verranno presto dimenticate: forse prima di tutto proprio in Kenya dove, quello che il ministro del Turismo in un comunicato ha definito «un incidente», ha creato non poco imbarazzo al governo, evidenziandone incapacità, inerzia e peggio ancora. Per far dimenticare il ritardo di ben sette ore con cui le unità speciali hanno raggiunto il campus dove oltre 500 studenti erano stati presi in ostaggio fin dall’alba da quattro – solo quattro! – miliziani al Shabaab, il governo ha ordinato dei raid aerei nel sud della Somalia dove i terroristi hanno delle basi. Il 5 aprile un portavoce della presidenza kenyana festeggiava la completa distruzione di due basi, ma solo per essere smentito di lì a poco dalla Bbc somala che, citando testimoni oculari, riportava che l’attacco aereo kenyano aveva ucciso del bestiame, distrutto alcuni pozzi e ferito tre persone in un’area in cui degli al Shabaab non c’è traccia. 

Il giorno successivo, in compenso, il governo ha annunciato di aver congelato i conti bancari di 86 persone sospettate di finanziare al Shabaab e di aver chiuso 13 hawala, i punti di trasferimento informale di denaro di cui moltissimi somali rifugiati in Kenya si servono per ricevere denaro dall’estero. Anche questa è una notizia che suscita polemiche dal momento che è davvero difficile credere a una indagine condotta in tempi tanto brevi. In altre parole, il fondato sospetto è che le autorità da tempo sapessero di quei canali di finanziamento dei terroristi e solo in seguito alla strage abbiano finalmente deciso di agire. Forse è per questo, per evitare contestazioni, che alla veglia di Nairobi non si sono viste autorità né cittadine né nazionali, neanche il presidente Uhuru Kenyatta o almeno il suo vice, William Ruto. O forse, nel loro caso, è stato perché entrambi sono stati accusati dalla Corte Penale internazionale di crimini contro l’umanità per aver istigato le violenze post elettorali del 2007 in cui morirono almeno 1.200 persone. Il processo a Kenyatta, peraltro, è stato archiviato da poco perché tutti i testimoni hanno ritrattato dopo aver subito minacce e intimidazioni e perché il governo kenyano ha ripetutamente rifiutato di consegnare alla Corte materiale indispensabile alle indagini. 

Comunque sia, le assenze dei politici sono state notate e criticate. Nell’editoriale del principale quotidiano del Kenya, The Nation, si legge: «in America, se uno perde la casa a causa di un uragano, può succedere che il presidente in persona arrivi a confortarlo e a promettergli aiuti per ricostruirla. In Kenya, sgozzano tuo figlio, la tua sola speranza, in cui hai investito tutti i beni di famiglia, ma le fitte agende del leader che hai votato non gli lasciano tempo per venirti a consolare e assicurarti che farà del suo meglio, che tuo figlio o tua figlia non sono morti invano, che capisce il tuo dolore e che farà il possibile per consegnare alla giustizia i colpevoli». A dire il vero, a parte le dichiarazioni di cordoglio e condanna formulate dall’Unione Africana, è l’intero Continente africano a risultare assente in questo drammatico frangente. Neanche un capo di Stato o di governo africano si è visto a Nairobi per partecipare al lutto: neanche uno dei sei che a gennaio erano volati a Parigi per sfilare in corteo davanti a centinaia di migliaia di persone per dire “Je suis Charlie”, dopo la strage della redazione della rivista satirica francese da parte di un commando di terroristi. Forse, se in una capitale europea i leader occidentali avessero organizzato una manifestazione, allora qualcuno sarebbe andato? Di nuovo in prima fila? Ma il fatto è che neanche ai governi occidentali è venuto in mente di organizzare manifestazioni e cerimonie per gli studenti di Garissa. 

Eppure il “silenzio più assordante” è quello del mondo accademico internazionale benché sia stato ferito a morte. Ci si aspettava che ovunque negli atenei milioni di lumini e di candele venissero accesi, e si deponessero fiori, e che docenti e studenti organizzassero veglie in ogni campus universitario. Ma così non è stato. Né va dimenticato che quello di Garissa è stato un attacco contro cristiani, contro studenti cristiani. Il 3 aprile La Nuova Bussola ha riportato una testimonianza in tal senso di uno studente, scampato alla morte, raccontata mentre ancora i terroristi erano in azione. Eccone altre due, tra le tante raccolte successivamente. 

I primi studenti a morire sono stati quelli che, sentendo sparare, sono fuggiti verso l’uscita del campus pensando di mettersi al sicuro, ma andando invece proprio incontro ai terroristi. «Subito li ho scambiati per poliziotti», ha raccontato una studentessa sopravvissuta, «ma improvvisamente li ho visti lanciare degli ordigni esplosivi nel punto in cui i membri dell’Unione degli studenti cristiani stavano pregando». Un’altra studentessa, Cynthia, che in quel momento stava preparando un esame, sentendo i primi spari è corsa con altre studentesse nel suo dormitorio. Prima si è rifugiata sotto un letto come le altre. Poi però ha deciso di nascondersi in un armadio ed è così che si è salvata mentre le sue compagne di stanza venivano scoperte. Dal suo nascondiglio, Cynthia ha sentito che i terroristi dividevano quelle di loro che sapevano recitare dei versetti del Corano dalle altre.