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IMMIGRATI

Aiutiamoli a casa loro Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare (e qualche miliardo rubato)

Ci vorrebbero accordi politici con quei Paesi costieri del Nord Africa da dove partono i gommoni, ma la forze di opposizioni e ong ripetono ormai come un mantra quel «aiutiamoli a casa loro» che pare la panacea di tutti i mali. Più facile a dirsi che a farsi. Ecco perché.                 

 E CON I BARCONI SBARCA L’INCUBO DELLE MALATTIE INFETTIVE di Paolo Gulisano

Politica 09_08_2016
Immigrati sugli scogli a Ventimiglia

Lasciano casa e si mettono in viaggio affidandosi alle reti di trafficanti create apposta per trasportarli clandestinamente in Europa. A migliaia approdano sulle coste italiane ogni settimana. Per lo più – circa il 90% – sono  giovani maschi, quasi tutti quelli africani non otterranno lo status giuridico di rifugiati, ma possono sperare, per non essere respinti, di ottenere un permesso per motivi umanitari o per protezione sussidiaria. 

Prima o poi bisognerà parlare con loro, domandare che cosa facevano prima di partire, dove, come e con chi vivevano, perché se ne sono andati da casa e chi ci hanno lasciato; e poi che cosa vogliono, possono e sanno fare, che progetti hanno per il futuro. È indispensabile saperlo per andare al di là della prima accoglienza e predisporre dei percorsi di integrazione economica e sociale. 

Quanto poco si sappia di loro e dei loro Paesi di origine spiega come mai così tante persone, pur da prospettive ed esperienze diverse, siano convinte che per fermare i flussi migratori occorra e sia sufficiente “aiutarli a casa loro”, con aiuti economici massici e ben concepiti: una specie di Piano Marshall per l’Africa, da tanti reclamato; tra questi, poche settimane or sono, dal direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego, sollecitando senso di responsabilità e impegno.

Ma di Piani Marshall per l’Africa quanti se ne sono già fatti! Non tutti sanno evidentemente che l’Europa finanzia in Africa le missioni Onu di peacekeeping e i programmi miliardari delle sue agenzie, le campagne preventive che consentono di vaccinare ogni anno centinaia di milioni di persone, i programmi di lotta contro Aids, malaria e tubercolosi, l’assistenza a decine di milioni di profughi e sfollati; e finanzia elezioni, negoziati di pace, operazioni militari contro i jihadisti legati ad al Qaida e Isis; e, ancora, contribuisce in misura consistente al bilancio di diversi governi e restituisce per conto loro i capitali prestati da Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale e mai restituiti. 

Se fosse una questione di soldi: ma basta ascoltare i vescovi africani per capire che non lo è. Quel che spinge i giovani africani ad andarsene, voltando le spalle a famiglia e paese, non è mancanza di denaro, ma di fiducia e di rispetto per le istituzioni e per chi le rappresenta. «La corruzione è un cancro endemico che ha raggiunto i vertici del Paese», ammoniva monsignor Joseph Osei-Bonsu, presidente della Conferenza Episcopale del Ghana, parlando agli studenti diplomati presso la scuola Our Lady of Grace di Momponteng lo scorso maggio. «E tuttavia i giovani devono essere pronti a contribuire alla crescita sociale del Paese e delle loro famiglie, mettendo a frutto i talenti donati loro da Dio». 

A giugno, a conclusione di un incontro dedicato al preoccupante fenomeno dell’emigrazione giovanile, la Conferenza Episcopale del Ghana è tornata a denunciare le malversazioni di denaro pubblico e le pratiche corruttive diffuse nel paese: «invitiamo con forza i governi africani a fare tutto quello che possono per creare un ambiente politico e socio-economico favorevole e opportunità di lavoro per la nostra pullulante gioventù disoccupata… Incoraggiamo altresì i giovani africani a rimanere nei loro Paesi e a lavorare sodo per guadagnarsi da vivere. Devono comprendere che l’Europa e altre aree al di fuori dell’Africa non garantiscono automaticamente conforto e piacere».

Corruzione, malgoverno, il merito che non paga, persone prive di qualità premiate dal successo, le arroganti classi superiori, ricche, potenti, prive di ritegno e scrupoli che scialano ostentando sprechi sfrenati, pubblici e privati, i privilegi immeritati e la prepotenza di chi si avvale di reti clientelari vincenti: cause prime, queste, del mancato sviluppo, radici di un malessere economico, sociale e morale diffuso. E per i giovani: ozio forzato, aspettative e pretese crescenti, cattivi pensieri, pessimi esempi. 

Ci vuole altro che un nuovo Piano Marshall, basta ascoltare i vescovi africani per capirlo; e guardare quel che succede. Il Sud Sudan, indipendente dal 2011, è in guerra dal 2013. I vertici Nuer e Dinka si disputano il potere incapaci di pensare al bene comune, in un Paese che avrebbe solo bisogno di pace e buon governo per mettere a frutto enormi giacimenti di petrolio. Sempre il petrolio farebbe la ricchezza del Mozambico. Ma approssimandosi il momento di incominciare a ricavarne utili, i due schieramenti che dal 1976 al 1992 furono responsabili di una delle più drammatiche guerre civili del Continente, Frelimo e Renamo, hanno ripreso a combattere. Il governo inoltre si è visto sospendere gli aiuti internazionali per aver nascosto debiti contratti per 1,4 miliardi di dollari, denaro che in gran parte ha speso per acquistare una flotta navale. 

Il vicino Angola è diventato grazie al petrolio una potenza regionale, togliendo alla Nigeria il primato di maggior produttore di petrolio dell’Africa. Il suo primo e unico presidente dal 1979, José Eduardo dos Santos, con un patrimonio di  20 miliardi di dollari è il capo di Stato africano più ricco e sua figlia Isabel è la donna africana più ricca. Ma il governo non si cura di prevenire malattie come la febbre gialla. A gennaio ne è scoppiata un’epidemia. L’Oms ad aprile ha fornito al governo 5,7 milioni di dosi di vaccino avvisando che ne occorrevano almeno altri 1,5 milioni per la sola area della capitale Luanda. È di tre giorni fa la scoperta che un milione di dosi sono sparite.  

ANNA BONO - MIGRAZIONI, EMERGENZA DEL XXI SECOLO - I LIBRI DELLA BUSSOLA