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SIRIA

Aleppo dimostra che non c'è alternativa alla pace negoziata

L'inasprirsi dei combattimenti ad Aleppo, in violazione della tregua in Siria, rischia di aprire una nuova fase di escalation. Gli orrori degli ultimi bombardamenti (due ospedali colpiti in pochi giorni) dimostrano quanto sarebbe feroce una nuova battaglia per il controllo della città. E il vicino Iraq dimostra anche quanto sia pericolosa la frammentazione settaria.

Esteri 04_05_2016
Aleppo, l'ospedale bombardato dai ribelli

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il segretario di Stato americano John Kerry hanno passato la giornata di ieri a ripeterlo: stiamo lavorando per riportare in vigore il cessate il fuoco ad Aleppo. E prima o poi - probabilmente - ci riusciranno anche. Ma proprio quanto accaduto negli ultimi giorni nella martoriata città del Nord della Siria conferma quanto anche un cessate il fuoco possa essere solo un pannicello caldo per mettere a posto per qualche tempo la coscienza.

È stata una nuova giornata terribile quella di ieri ad Aleppo. Soprattutto una giornata che ha ricordato al mondo che ci sono due Aleppo: non c'è solo la parte Est, quella nella mani dei ribelli, colpita dai raid dell'aviazione di Damasco abbondantemente documentati dagli attivisti siriani; ci sono anche i quartieri Ovest, quelli martellati dalle bombole a gas trasformate in razzi dai miliziani jihadisti. Anzi: da venerdì è soprattutto da questa parte della città che giungono le notizie di attacchi e devastazioni. E ieri - quasi in una sorta di macabro occhio per occhio - è in questa parte controllata dalle forze governative che lo scempio ha colpito un ospedale, quello di Dabbit. Un reparto di ostetricia, tanto per non essere da meno rispetto alla pediatria sostenuta da Medici senza Frontiere e colpita qualche giorno fa dai caccia siriani.

Rimasti invisibili quando colpivano chiese, case dei civili e anche moschee «dalla parte sbagliata», ieri finalmente i razzi di al Nusra sono diventati visibili anche nei servizi dei Tg. E la parola magica cessate il fuoco è tornata con insistenza sulle bocche dei diplomatici di mezzo mondo. Ma il punto resta: e dopo? Si ricomincerà con il balletto degli incontri separati a Ginevra, con la tentazione di far ripiombare per dieci giorni nella disperazione Aleppo solo per non mostrarsi deboli al tavolo negoziale?

Quando domenica scorsa papa Francesco è tornato a indicare il dialogo come «unica via», non ha fatto la prefica buonista dell'uomo vestito di bianco. Ha detto una verità che nessuna propaganda - né da una parte né dall'altra - è in grado di smentire. Perché stiamo vedendo da dieci giorni che cosa vorrebbe dire aprire sul serio la battaglia di Aleppo: morte e devastazione indiscriminata, soprattutto sui più deboli, da una parte come dall'altra della barricata. Non esiste un'alternativa soft e lo stesso stracciarsi le vesti per le bombe sugli ospedali è profondamente ipocrita: come se quelle che cadono su quartieri dove abitano tuttora centinaia di migliaia di persone fossero moralmente più accettabili.

Se entra casa per casa dentro Aleppo la guerra va avanti per mesi così, con questo tributo altissimo di sangue e con conseguenze facilmente immaginabili. E allora ai duri e puri che da entrambe le parti arricciano il naso all'idea di negoziare con milizie «terroriste» sostenute da Turchia e Arabia Saudita oppure - specularmente - con il «regime» di Damasco, viene da chiedere: qual è oggi l'alternativa? Andare avanti con questa carneficina?

Sarebbe la scelta più pericolosa. Anche perché il contagio continua a estendersi. Ad esempio: chi ha granitiche certezze sul fatto che le milizie sciite libanesi, iraniane e irachene abbondantemente presenti sui campi di battaglia siriani a fianco delle truppe di Assad domani non presenteranno il conto, farebbe bene a guardare a quanto sta succedendo in questi giorni in Iraq. Con un Paese che - come denuncia da tempo il patriarca caldeo Sako - anche nelle aree non controllate dall'Isis è ormai allo sbando. E con un personaggio come Moqtada al Sadr divenuto il nuovo paladino della lotta alla corruzione, capace di far marciare sul parlamento i suoi sostenitori (in cortei rigorosamente divisi tra uomini e donne). Come si ricorderà il patriarca Sako sta mettendo in guardia dai segnali sempre più chiari di una deriva settaria in Iraq. E varrebbe la pena di ricordare anche che Moqtada al Sadr viene da quella stessa famiglia dell'imam Musa al Sadr che - con una storica fatwa sugli alawiti nel 1974 - pose le basi religiose per quello che dopo la rivoluzione iraniana sarebbe diventato l'asse tra Damasco e Teheran.

Tutto questo per dire che una soluzione negoziata in Siria - con assunzioni di responsabilità internazionali vere e obblighi precisi imposti ad Arabia Saudita e Turchia - è l'unica strada per provare a fermare anche altri apprendisti stregoni oggi in circolazione. E non finire per lasciare l'Isis ad avvantaggiarsi delle lotte intestine altrui.