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IL CASO FOGGIA

Associazioni o moschee? L'abuso ignorato diventa virus

L’arresto di Abdel Rahman Mohy e il sequestro dei locali dell’associazione “Al Dawa” di Foggia fanno emergere una potenziale bomba atomica. E’ quella che si è infiltrata sfruttando le maglie larghe di una legge inadeguata per i centri di culto islamici e l'inerzia dei comuni nell’esercizio di una vigilanza che però si mostrano molto solerti per altre confessioni religiose.

Attualità 28_03_2018
Il centro culturale islamico di Foggia

L’arresto di Abdel Rahman Mohy Eldin Mostafa Omer e il conseguente sequestro dei locali dove ha sede l’associazione culturale “Al Dawa” di Foggia fanno emergere in tutto il loro clamore una potenziale bomba atomica. E’ quella che si è infiltrata nel nostro Paese sfruttando da un lato le maglie larghe di una legge inadeguata per i centri di culto islamici e dall’altro la sostanziale inerzia delle forze dell’ordine municipali nell’esercizio di una vigilanza che però si mostra molto solerte per altre confessioni religiose.

Il nodo è tutto qui. Se l’associazione Al Dawa di Foggia ha potuto esercitare attività di culto, insediando nei locali non solo una moschea, ma anche una madrassa all’interno della quale indottrinava i bambini in lingua italiana alle “virtù” islamiche della distruzione degli infedeli, è perché l’associazione ha potuto operare sul territorio praticamente indisturbata, ma godendo di un regime di indifferenza in cui i comuni fanno finta di non vedere abusi colossali.

E’ un problema che nessuno si incarica di risolvere. Delle migliaia di moschee sparse sul territorio nazionale, una percentuale bassissima ha il riconoscimento di luogo di culto. Tutte le altre sono infatti moschee abusive, classificate da una dicitura ambigua quanto confortante: associazione di promozione islamica. Si tratta di un escamotage che sfrutta le maglie di una legge creata per tutt’altro. Si tratta della Legge 7 dicembre 2000, n. 383 chiamata "Disciplina delle associazioni di promozione sociale". Quando venne licenziata dal Parlamento doveva servire per – come spiegato nei primi articoli – “riconoscere il valore sociale dell’associazionismo liberamente costituito e delle sue molteplici attività come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo” come recita l’articolo 1.

Insomma, aiutare circoli culturali, associazioni sportive dilettantesche o culturali ad essere riconosciute e darsi una sede senza troppi problemi burocratici. Ma quella legge è diventata ben presto il grimaldello utilizzato dalle comunità islamiche per insediarsi nel territorio italiano piazzando moschee e madrasse nel completo disinteresse delle istituzioni, in spregio alla legge e nella sostanziale impossibilità a intervenire da parte delle forze dell’ordine.

Il punto centrale lo si trova all’articolo 32 comma 4 della legge:La sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”. Con questo escamotage le comunità islamiche, da realtà religiose si sono costituite in associazioni culturali e con questa dicitura hanno potuto occupare scantinati, garage, negozi, magazzini e altro impiantandovi così il loro luogo di culto. In Italia funziona così.

Formalmente dunque si tratta di attività culturale, ma concretamente è una vera e propria “chiesa” che agisce in spregio a regolamenti urbanistici e senza che le amministrazioni possano - o vogliano - più di tanto controllare. Perché controllare visto che formalmente non si tratta di una moschea ma solo di attività culturale? In fondo, tenerli in uno scantinato non è meglio che farli emergere allo scoperto o peggio ancora impedire loro di professare il culto?

L’interrogativo retorico spalanca la madre di tutti gli interrogativi: perché i comuni non fanno nulla? E’ la domanda che la Nuova BQ ha posto a Umberto Bosco, consigliere comunale leghista a Bologna che da anni lotta contro questo scandalo a cielo aperto denunciando quel che la Polizia Municipale del Comune felsineo non vuole vedere.

“La legge nazionale nasce per tutt’altro – spiega -. Ma consente di fatto alle comunità islamiche di aprire ovunque: negli scantinati, nei capannoni, nelle torri: in Italia si possono aprire sedi di associazioni di promozione sociale in deroga a qualunque vincolo urbanistico, cosa che un luogo di culto non può assolutamente fare per motivi di sicurezza e igiene”.

Tutto deriva da un problema che per certi versi mostra come la partita del dialogo con l’Islam sia sostanzialmente un cane che si morde la coda: “In Italia, non essendoci un concordato, i musulmani fanno faticano ad aprire luoghi di culto inquadrati come tali, ma questo deriva dal fatto che l’Islam è una realtà estremamente frammentata, in lotta tra mille fazioni e che non ha un vertice a cui fare riferimento. Ma questa situazione di sfavore ha suggerito loro di aggirare la legge aprendo tanti piccoli centri di culto, che in questo modo diventano incontrollabili sotto ogni punto di vista”.

Bosco ha raccontato di aver recentemente partecipato ad un corso sul radicalismo islamico organizzato dal suo comune. Ebbene: “Si è scoperto che i vigili sono andati a sgomberare i locali abusivi adibiti a luogo di culto, ma si trattava di una specie di setta di pentecostali nigeriani. Per questi l’intervento è stato immediato, ma per le migliaia di luoghi di culto islamici sparsi sul territorio, non si fa nulla. Ma in questo modo proliferano e diventano incontrollabili ai fini della sicurezza perché il radicalismo si infiltra molto meglio”.

Ogni tanto però si cerca di far vedere che la legge c’è. E allora i Comuni procedono a fare qualche “repulisti”, ma in realtà un censimento vero e proprio non c’è: “Ho denunciato la cosa, sono intervenuto in diverse occasioni, venerdì scorso mi sono confrontato con l’assessore all’urbanistica di Bologna Valentina Orioli. La risposta? Loro intervengono solo su segnalazione. Eppure ci sono fior di sentenze, il problema è che manca la volontà politica di intervenire”.