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LO SCANDALO

Boschi e Renzi: le colpe dei padri colpiscono i figli

Ai tempi della Prima Repubblica, ma anche in un passato non lontano, erano le condotte di figli disinvolti e spregiudicati a intaccare e a volte a compromettere l’immagine di qualche personaggio di spicco. I casi della Boschi prima e di Renzi adesso invertono i termini di questa tradizione. 

Politica 06_03_2017
Renzi sr.

Ai tempi della Prima Repubblica, ma anche in un passato non lontano, erano le condotte di figli disinvolti e spregiudicati a intaccare e a volte a compromettere l’immagine di qualche personaggio di spicco della politica italiana.

Chi non ricorda le polemiche sui presunti favori ottenuti dal figlio dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sia in campo accademico che consulenziale? E come scordare le imbarazzanti vicende di Renzo Bossi, detto il Trota, dalla laurea “fasulla” in Albania alle accuse di “spese pazze” in Regione Lombardia? Nell’era del renzismo, la realtà sembra capovolta: sono le azioni dei padri a creare imbarazzo ai figli. Lo scandalo di Banca Etruria ha fatto salire agli onori della cronaca il padre del Ministro Maria Elena Boschi, le indagini sulla Consip (ma anche altre recenti inchieste di minore rilevanza) hanno coinvolto Tiziano Renzi, padre dell’ex premier. In entrambi i casi, le colpe dei padri hanno danneggiato notevolmente l’immagine dei figli, sottraendo loro un’ampia fetta di popolarità, e, con ogni probabilità, hanno anche contribuito a stroncare o quanto meno a ridimensionare le ambizioni politiche dei figli.

E’ vero che la distinzione tra le due situazioni è comunque relativa: nel  primo caso potrebbero essere stati gli incarichi dei padri ad aver stimolato i figli ad approfittare di privilegi e opportunità; nel secondo caso potrebbero essere state le poltrone ricoperte dai figli a scatenare gli appetiti dei padri. Cambia poco. Si spazia sempre nel campo del cosiddetto familismo amorale o della logica del clan, fermo restando che tutte le accuse mosse sia ai primi che ai secondi devono essere provate e che nessuna condanna è ancora stata pronunciata. La verità è che il “giovanilismo” della politica degli ultimi anni, che considera il fattore anagrafico uno degli elementi determinanti della selezione della classe dirigente, a prescindere dalle effettive capacità dei singoli, ha fatto semplicemente invertire i ruoli padre-figlio, ma non ha scardinato le vecchie consorterie di potere che ancora gestiscono gran parte delle partite decisive nella gestione del Paese. 

Ma questa non è la sola constatazione suggeritaci dagli accadimenti degli ultimi giorni. Un’altra discende da una lettura anche solo sommaria delle prime pagine dei quotidiani. I principali giornali, che fino al 4 dicembre incensavano l’allora premier, attraverso letture edulcorate della realtà ed editoriali di insigni economisti, politologi e docenti universitari che lodavano le azioni e le politiche del governo presieduto da Matteo Renzi, ora sono i primi a massacrarlo e a profetizzarne (o addirittura ad auspicarne) il declino inesorabile. Giorni fa l’ex direttore di Repubblica, che però continua a scrivere pregevoli commenti in prima pagina, ha attaccato la logica autoreferenziale del cosiddetto “giglio magico”, usando un’espressione difficile da confutare: "Renzi ha confuso il Paese con il paese", riferito alla provenienza toscana di tutti gli uomini chiave da lui scelti per “occupare” Palazzo Chigi e gestire la cosa pubblica. Parole brillanti e calzanti, quelle di Ezio Mauro, che però arrivano quando Renzi non è più premier e che invece sarebbe stato coraggioso e onesto scrivere qualche mese fa. Già all’epoca, infatti, i segnali di una gestione chiusa e impenetrabile del governo da parte di Renzi erano chiari. Sembrava decidessero tutto lui, la Boschi e Lotti, esautorando perfino molti ministri di peso. Il camaleontismo della stampa che conta è esploso, ora, in tutta la sua virulenza, attraverso lo sviluppo di queste considerazioni, che solo alcune testate di minor peso avevano avuto il coraggio di svolgere quando il renzismo sembrava dilagante e vincente.

Altra amara constatazione riguarda i contenuti dell’affare Consip. La malelingue sostengono che la magistratura ora intenda far pagare a Renzi la spavalderia e la sfrontatezza a lungo dimostrate dall’ex premier nei confronti delle toghe. Sarebbe molto grave se fosse così. Ci limitiamo a ricordare che nei confronti di Berlusconi le toghe scatenarono una potenza di fuoco quando era ancora in sella mentre nel caso di Renzi l’hanno fatto quando è rimasto senza incarichi, sia di governo che di partito che parlamentari. Con l’ex sindaco di Firenze probabilmente le Procure non hanno voluto correre il rischio di passare ancora una volta come forze di destabilizzazione, contribuendo a sfilargli la poltrona di Presidente del Consiglio. Hanno aspettato che perdesse il referendum, si dimettesse e si indebolisse nel suo partito per dargli il colpo di grazia. Ovviamente sono solo congetture tutte da dimostrare, ma che qualcuno nei Palazzi alimenta con convinzione. Il tutto si collega al circo mediatico-giudiziario che svela un rapporto patologico tra magistratura, potere politico e informazione, con effetti devastanti sulla gestione della cosa pubblica e sul deterioramento della fiducia del cittadino nelle istituzioni. Prima con Berlusconi, ora con Renzi, ma per mesi anche nei confronti di Virginia Raggi, sindaco di Roma, è stato messo in piedi un plotone di esecuzione di toghe e “soloni” del giornalismo pronti a condannare senza contraddittorio i rappresentanti del popolo: un andazzo tutto italiano.

Resta in ogni caso la gravità delle accuse formulate nei confronti del padre di Renzi, e che suggeriscono un’ultima sgradevole sensazione: quella di una certa inutilità di tutte le azioni anti-corruzione sbandierate ai quattro venti in Italia. Esiste da anni perfino un’Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, ma molti appalti continuano ad essere gestiti con le solite procedure che ben conosciamo da decenni. Quello riguardante Romeo e la Consip aveva un importo gigantesco, pari a quasi tre miliardi di euro. E allora viene da chiedersi: a che cosa servono leggi, autorità, nuclei di contrasto alla corruzione se vertici dello Stato telefonano a presunti disonesti per avvisarli di cimici, intercettazioni e controlli? La risposta sarebbe scontata se si scoprisse che tutto ciò è accaduto davvero. E lo sapremo presto.