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NAPOLI

«Colpa della società», il neo-marxismo del vescovo Battaglia

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Ai funerali del giovane ucciso a Napoli il 31 agosto scorso, monsignor Battaglia rispolvera il vecchio mito della colpa collettiva, un moralismo buonista che sposta il principio del peccato e della redenzione dal livello individuale a quello collettivo. Così si snatura la morale cristiana, capace di riconoscere il male profondo che c'è nel cuore di ogni uomo.

Cultura 09_09_2023
Il vescovo Battaglia ai funerali di Giovanbattista Cutolo

«È colpa della società!». A partire dalla seconda metà del Novecento questa formula, come un mantra, ha dilagato in tutte le società occidentali, dalla cultura accademica alla politica ai mass media, come spiegazione unica di ogni fenomeno di criminalità e devianza, e persino delle patologie psicologiche, fino a diventare un luogo comune stereotipato e quasi auto-caricaturale.

Ora questa formula torna prepotentemente, poco opportunamente, alla ribalta con alcune frasi pronunciate dall'arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia nell'omelia per i funerali del giovane Giovanbattista Cutolo, ucciso a Napoli nella notte del 31 agosto scorso. «Dinanzi alla bara di questo nostro giovane amico nessun adulto di questa città può dirsi assolto!», ha detto il presule partenopeo dal pulpito. «[…] Perdona, figlio nostro, tutti gli adulti di Napoli, coloro che dimenticano che i bambini, gli adolescenti, i giovani sono figli di tutti e tutti devono prendersene cura, facendo la propria parte, alzando la propria voce, mettendoci la propria faccia e condividendo la propria vita dinanzi a una deriva fatta di egoismo e di indifferenza, di individualismo e narcisismo […] Perdonaci tutti Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguiti azioni. […] Perdona i nostri individualismi, i nostri protagonismi sterili, le nostre visioni parziali, la nostra incapacità di fare rete, di superare l’idolatria dell’io per creare il "noi"». 
Insomma, per Battaglia colpevole non è solo l'assassino, ma sono tutti i cittadini, per egoismo, miopia, quieto vivere. La tragica realtà del delitto di sangue viene diluita da una condanna più generale delle omissioni collettive.

«È colpa della società» era la frase che esprimeva l'egemonia dell'ideologia marxista, il suo determinismo socio-economico  ridotto alla sua forma più rozza o diluito nel sociologismo tecnocratico liberal americano, impostosi come nuova morale in sostituzione di quella cristiana, aristocratica e borghese. Quel determinismo imponeva di affermare che se qualcuno compiva un crimine questo atto non era il frutto di una sua scelta tra il bene e il male ma di una serie di condizioni oggettive e di condizionamenti legati ai rapporti (ingiusti, iniqui) di potere economico e sociale, e quindi egli non ne era moralmente responsabile, ma il problema ricadeva sulla collettività, e si sarebbe risolto soltanto quando quei fattori condizionanti fossero stati superati da un assetto sociale nuovo.

La morale ideologica/sociologistica si esprimeva dunque in un relativismo assoluto, per cui non è possibile distinguere tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, e ogni richiesta di legalità o ordine veniva additata come l'ipocrita copertura della volontà di perpetuare il divario tra oppressori e oppressi. «Per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti», recitava la Canzone del maggio di Fabrizio de André, tratta da un canto del Sessantotto francese, per additare al pubblico ludibrio i “buoni borghesi” che inorridivano davanti ai disordini dei giovani ribelli. E quel dito accusatore è stato, da allora, puntato implacabilmente da chiunque - in virtù di ideali progressisti e aspirazioni dottrinarie al paradiso in terra - si sentisse superiore alla piatta morale dei “bottegai”.

Con il discredito caduto sul marxismo alla fine del Novecento il ferreo determinismo rivoluzionario antilegalitario si andò rapidamente scolorendo, e del suo impeto militante rimaneva in piedi soltanto il relativismo morale, che divenne il fondamento della nuova ideologia egemone tra le élites occidentali nel XXI secolo: l'”utopia diversitaria” che predicava l'avvento di una società totalmente “accogliente” e “inclusiva”, il “politicamente corretto” che santificava le minoranze come specie protette da salvaguardare da ogni discriminazione e “offesa”, il “wokismo” che condannava tutti i principi etici e sociali consolidati della civiltà occidentale come “razzismo sistemico” da estirpare, l'ecologismo apocalittico.

Come tutte le ideologie, religioni politiche senza Dio, il nuovo credo aveva la sua morale. Non più la delega del bene alla rivoluzione, al partito che la avrebbe realizzata, ma un moralismo relativista, asimmetrico, dolciastro, appiccicoso e tuttavia spietato noto come “buonismo”, sintetizzabile così: alle minoranze “protette” tutto è perdonato, mentre l'”uomo comune” occidentale – per natura discriminatore, imperialista, violento – è sempre colpevole di tutto ciò che di male è successo e succede ovunque nel mondo. Il principio secondo cui «è colpa della società» si è definito allora sempre più come «è colpa tua»: colpa dei tuoi comportamenti, del tuo egoismo. Colpa individuale sì, ma solo di alcuni, quelli  “disegnati” come “cattivi”, e incancellabile come un peccato originale o una maledizione.

E la morale cristiana? Che fine ha fatto in questo passaggio storico? In alcune regioni geografiche e socio-culturali dell'Occidente ha resistito, proponendosi anche come forza reattiva anti-ideologica, sguainando spade a difesa della realtà, del fatto che «le foglie sono verdi in estate», per dirla con Chesterton. Ma in altre, incluse parti cospicue delle Chiese e del laicato ad esse legato, ha mostrato enormi segni di cedimento alle ideologie imperanti. E, dopo la diffusa infatuazione tardo novecentesca per la “teologia della liberazione”, si è andata imbevendo in misura crescente del moralismo buonista, spostando il principio del peccato e della redenzione dal livello individuale a quello collettivo, e poi ritorcendo di nuovo il senso di colpa contro l'individuo: soprattutto per condannare la presunta mancata “inclusione” degli immigrati sempre e comunque, il “privilegio bianco” o le “offese” a “madre Terra”. Nella Chiesa cattolica legioni di sacerdoti e prelati “liberazionisti” e rivoluzionari sono diventati nel tempo implacabili giudici dei presunti peccati di indifferenza, mancata solidarietà, utilitarismo insensibile al bene comune, e simili.

È tutto questo tracciato, in cui l'ansia religiosa di redenzione e perdono si degrada a prosaica rivendicazione ideologica, moralistica, politicistica, “sindacale”, a trasparire nell'omelia del vescovo Battaglia. In questa evocazione socializzata della colpa, è rimasta soltanto un'eco lontana, snaturata, caricaturale della radicalità cristiana, della sua capacità unica di individuare il male profondo che vive nel cuore di ogni uomo.  



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