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EDITORIALE

Da Sarajevo a Loreto: chi sono io per lamentarmi?

Le drammatiche testimonianze sulla guerra che il Papa ha ascoltato a Sarajevo fanno il paio con quella di padre Douglas Bazi, di Erbil, presentata al pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto: la pace nasce dalla memoria di quanto è accaduto, da quella coscienza di appartenere a Cristo. 

Editoriali 08_06_2015
Il Papa si inchina a uno dei sopravvissuti al nazismo.

C’è soprattutto un momento della visita a Sarajevo di Papa Francesco che vale la pena tenere vivo nella memoria. Sono state le testimonianze di un prete, un frate e una suora che hanno raccontato la loro personale terribile esperienza durante la guerra dei Balcani tra il 1992 e il 1995. Racconti che hanno dato un’altra consistenza a quel grido risuonato anche in questo viaggio del Papa: «Mai più la guerra»; un’altra consistenza a quell’impegno per la pace che papa Francesco intende testimoniare. Riprendo alcuni passaggi:

«La Domenica delle Palme, il 12 aprile 1992, dopo la messa i soldati mi hanno catturato e portato nella città di Knin, nella vicina Croazia. Più volte mi hanno percosso fino al punto di farmi perdere conoscenza a causa del dolore. Hanno cercato di farmi dire, pubblicamente in televisione, che sono un criminale di guerra, che i sacerdoti sono criminali e che educano criminali. Quando hanno capito che sarei stato pronto a morire piuttosto che pronunciare queste menzogne, mi hanno portato davanti al comandante militare. Ho camminato con molta fatica. Le manette erano così strette ai polsi che ancora oggi ne porto i segni. Al comandante era chiaro che non avrei resistito a lungo. Quindi hanno deciso di portarmi in ospedale in fin di vita… Tante volte ho perso conoscenza. (…) A causa di questa esperienza ora sono affetto da sclerosi multipla che è una croce per tutta la vita. (…) Ma io perdono di cuore tutti coloro che mi hanno fatto del male e prego per loro affinché Dio misericordioso li perdoni ed essi si convertano verso un cammino di bene» (don Zvonimir Matijevic)".

«Il 14 maggio 1992 poliziotti serbi sono arrivati nella casa parrocchiale e mi hanno portato al campo di concentramento, insieme a molti miei parrocchiani, pur non avendo fatto nulla di male. La parrocchia, a Bosanski Samac, è rimasta senza popolazione e la maggior parte delle case distrutte. A quaranta anni ho trascorso quattro mesi nel campo di concentramento. Il tempo nel campo di concentramento non si conta per mesi, ma secondo i giorni, le ore, i secondi.I giorni erano molto lunghi perché erano pieni di incertezza e di paura. 120 giorni sono stati come 120 anni o più. Abbiamo vissuto in condizioni disumane! Per tutto il tempo abbiamo patito la fame e la sete; in tutti quei giorni e quelle notti abbiamo vissuto senza le minime condizioni igieniche, senza poterci lavare, rasare, tagliare i capelli; ogni giorno venivamo maltrattati fisicamente, picchiati, torturati con diversi oggetti, con le mani e con i piedi... Colpendomi, mi hanno rotto, tra l'altro, tre costole» (fra Jozo Puskaric)

«Quando è scoppiata la guerra, sono comparsi miliziani stranieri provenienti da alcuni paesi arabi del Medio Oriente", "i miliziani hanno costretto don Vinko a calpestare il mio rosario con le sue scarpe. Lui ha rifiutato. Uno dei miliziani, sguainando la sua spada, ha minacciato il parroco di massacrarmi se non avesse calpestato e profanato il rosario. Allora ho detto al parroco: "Don Vinko, lasciate pure che mi uccidano, ma, per l'amore di Dio, non calpestate il nostro oggetto sacro".  "In quei momenti difficili, don Vinko ci ha detto sottovoce: 'Non temete, vi ho dato l'assoluzione a tutti. Ora siamo pronti a morire in pace! … Quella notte ci hanno picchiato tutti; A un certo punto ho sentito la canna del fucile sulla mia fronte e una voce che mi ordinava di confessare l'Islam come unica e vera religione. Ero spaventata ma restavo zitta, e la stessa voce mi ha ordinato di non riferire a nessuno quelle cose, altrimenti la mia testa sarebbe finita all'inferno. Ho pensato che fosse arrivato il momento della mia morte. (…) Per quanto i nemici siano stati insensibili e malvagi, ha sovrabbondato la grazia di Dio su di noi». (suor Ljubica Sekerija)

Questi racconti sono stati così veri, così pieni di dignità e speranza da indurre anche il Papa ad abbandonare i fogli con il discorso già preparato e improvvisare un intervento, in cui ha invitato tutti a ricordare, la «memoria dei martiri» l’ha chiamata. Per covare la vendetta? No, ricordare per fare la pace. Può sembrare assurdo, ma anche questo è il paradosso cristiano. Il perdono non nasce dal “dimenticare le offese”, ma dal ricordarle. La pace mondana, infatti, può essere solo il frutto di compromessi, si mette da parte qualcosa di sé per poter andare d’accordo con gli altri: vale per i rapporti personali così come per quelli degli Stati.

Ma la pace che questi religiosi hanno testimoniato è un’altra cosa, nasce dall’associare le proprie sofferenze, le sofferenze di ogni uomo, a quelle di Cristo. Lo ha spiegato bene un’altra testimonianza che quasi contemporaneamente veniva ascoltata da oltre 100mila pellegrini sulla sponda opposta dell’Adriatico, i partecipanti al pellegrinaggio Macerata-Loreto. Si tratta di un altro prete, padre Douglas Bazi, parroco di Erbil, in Iraq, città dove hanno trovato rifugio migliaia di cristiani costretti ad abbandonare la piana di Ninive a causa dell’arrivo dell’ Isis. Per padre Douglas quelle violenze non sono ancora una memoria, bensì la sua realtà quotidiana:

«È un tempo di guerra, è un tempo di crisi e di persecuzione quello che stiamo vivendo ora. Personalmente mi hanno cacciato, hanno fatto esplodere la mia chiesa, mi hanno sparato a una gamba, ho perso la mia comunità, sono stato rapito per nove giorni, sono sopravvissuto a due attacchi con le bombe, sono ancora sopravvissuto a un attacco alla chiesa durante la messa: nonostante tutto questo, chi sono io per lamentarmi? Mettiamo la nostra mano su quella di Dio». E ancora: «Dobbiamo smettere di lamentarci, perché Gesù ha offerto la vita per noi col suo sacrificio..» «Apparteniamo a Dio, non apparteniamo a nessun altro. Dio è il nostro modello. Noi dobbiamo seguire il nostro maestro perché noi esistiamo ancora. Fratelli e sorelle, perché i cristiani esistono ancora nel mio paese? Semplice, perché noi apparteniamo a Cristo, non a questa terra. Io non sono sorpreso dal fatto che ci attacchino, ma sono sorpreso per il fatto che la mia gente ancora sopravvive. E noi sopravviviamo perché apparteniamo a Gesù. Non apparteniamo a un settarismo o a gente che vuole portarci da qualche parte. Gesù è il nostro scopo. (…) Noi siamo pronti al sacrificio. Ma ricordate anche che noi siamo una parte del corpo e il capo di quel corpo è Gesù Cristo. Ora siamo nella sofferenza e nella persecuzione e voglio che sappiate che ci uccideranno e non smetteranno di ucciderci; forse non avrò più un’altra occasione di parlare con voi, ma sono certo che non possono cambiare la nostra mente, perché la nostra mente è collegata col cuore. Vi chiedo di restare uniti a noi nella preghiera perché i credenti con la preghiera possono abbattere qualsiasi porta chiusa».

Non c’è nulla da aggiungere, solo tenere viva la memoria di questi martiri perché anche noi possiamo imparare ad affrontare la vita con la coscienza che la pace, la speranza nasce solo dall’appartenenza a Cristo.