Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Angelo di Sicilia a cura di Ermes Dovico
ELEZIONI USA

Fra Trump e la Clinton ha vinto Wallace, il moderatore

Stavolta, a moderare il terzo e ultimo confronto diretto fra i due candidati presidenziali americani, c'era Chris Wallace di Fox News. Nelle sue domande sui principi fondamentali, ha fatto emergere il meglio della "Right Nation" conservatrice. Ma Trump non ha sfruttato l'assist. E la Clinton ha mostrato la sua "perfidia".

Esteri 21_10_2016
Chris Wallace

Il terzo e ultimo confronto diretto fra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti Donald J. Trump e Hillary Clinton, svoltosi mercoledì 19 nell’Università del Nevada a Las Vegas, ha avuto un vincitore netto. Chris Wallace. L’elegante anchorman dell’emittente televisiva Fox News che poneva le domande ha infatti portato la discussione su temi finalmente politici, argomenti decisivi e questioni indispensabili per comprendere e far comprendere Trump e la Clinton.

Nel vincere lui il confronto che era di Trump e della Clinton, Wallace ha fatto vincere quella che un tempo si chiamava “Right Nation”: poi ce ne si è scordati, ma la “Right Nation” non è scomparsa. Wallace ha infatti inchiodato i due aspiranti presidenti ai temi chiave su cui oggi e sempre s’interroga, elettoralmente ma non solo, quella cultura conservatrice che negli Stati Uniti ha il merito storico e l’orgoglio di preservare e difendere l’impianto giuridico, le fondamenta filosofiche e le architravi morali su cui si regge il Paese da più di duecento anni, e questo con la pretesa di affermare che quell’impianto, quelle fondamenta e quelle architravi, pur in modo imperfetto come lo sono tutte le realtà umane, promuovono e operano il bene (non solo materiale) del cittadino-persona (e non solo del cittadino-elettore o del cittadino-contribuente). Così facendo, Wallace ha permesso che la “Right Nation” si esprimesse con chiarezza e che dunque con altrettanta benché speculare chiarezza si esprimesse l’alternativa liberal che da più di duecento anni si adopera per modificare l’impianto giuridico, le fondamenta filosofiche e le architravi morali su cui si regge il Paese, e questo con la pretesa di affermare che la persona umana nella fattispecie del cittadino statunitense di cui quell’impianto, quelle fondamenta e quelle architravi sono funzione sia intrinsecamente sbagliata e dunque da ribaltare per essere rifatta.

Tagliente come un laser (secondo una tipica espressione americana), privo di sbavature, non concedendo nulla che non fosse nelle regole e con l’immancabile mezzo sorriso sulle labbra non d’imbonimento ma di serenità, Wallace ha chiesto anzitutto conto ai duellanti di quale criterio li guiderà, dovessero divenire presidenti, nella nomina dei giudici per la Corte Suprema (almeno uno ancora manca, dopo la scomparsa del non ancora rimpiazzato Antonin G. Scalia [1936-2016], per altri potrebbe diventare maturo il tempo della sostituzione nel prossimo quadriennio) e se nel farlo riterranno discriminante le fedeltà dei candidati al testo costituzionale (la dottrina giuridica conservatrice detta “Originalismo” di cui proprio Scalia è stato un campione e un esegeta indiscusso). Quindi ha domandato il loro orientamento sul Secondo Emendamento alla Costituzione federale che tutela il diritto dei cittadini al porto d’armi (negli Stati Uniti un punto dirimente del rapporto Stato-cittadino, di natura filosofica prim’ancora che materiale); ha portato l’attenzione sulla questione, negli Stati Uniti sempre di straordinaria attualità politica, dell’aborto esordendo con il dire secco: «Signor Trump, lei è a favore del diritto alla vita»; e ha quindi domandato dell’immigrazione, del mercato del lavoro, della crescita economica e della spesa pubblica.

Nel farlo, Wallace, voce della “Right Nation”, ha fatto cose che avrebbe dovuto fare Trump: mai in deroga al proprio ruolo d’intervistatore imparziale, ha notificato alla Clinton che i suoi piani economici sono «[…] per molti aspetti simili al “piano di stimolo” voluto da Obama, il quale ha comportato la crescita del prodotto interno lordo più lenta dal 1949» e l’ha messa all’angolo per il colossale conflitto d’interessi (e magari qualcosina in più) riguardante i traffici internazionali milionari gestiti da lei, dalla sua famiglia e dal “cerchio magico” dei suoi collaboratori attraverso la Clinton Foundation e le sue controllate nell’abuso della posizione, tra il 2009 e il 2013, di Segretario di Stato del Paese più importante del mondo.

L’anchorman ha insomma offerto a Trump su un piatto d’argento le armi e le occasioni per abbattere l’ex First Lady Clinton pur senza mai difettare di oggettività e Trump che ha fatto? Ha detto che è d’accordo con Wallace. Certo, il mondo intero si è reso conto che con Trump e con la Clinton si stanno scontrando due visioni del mondo e non solo due ricette politiche agli antipodi (Hillary ne incarna una e l’altra si staglia dietro il magnate newyorkese che ancora mostra di non esserne convinto), e che dunque non è affatto indifferente votare per l’uno o per l’altro, ma un’altra differenza forse decisiva è saltata agli occhi di tutti. La Clinton è capace di sfoggiare una personalità presidenziale perfida (cioè, etimologicamente, pervicace nella volontà di far trionfare la propria visione del mondo) mentre Trump è ottimo soltanto nella pars destruens.

Dopo aver fatto tutto quello che ha potuto affinché la partita non fosse squilibrata come in troppe altre occasione è stata, complice una stampa connivente, l’arbitro Wallace ha quindi lasciato il campo agli sfidanti. La Clinton ha così enunciato forte e chiaro l’intento di sovvertire quanto più profondamente possibile il diritto costituzionale e lo spirito del Paese, di promuovere sempre più l’aborto e l’ideologia gender, di governare alla luce del politicamente corretto, d’ipertassare tutti, di proseguire lungo il solco di Barack Obama nell’azzoppare l’imprenditorialità americana (dei singoli, delle famiglie e delle loro aziende) a dosi ripetute di statalismo e di assistenzialismo. Trump ha invece sostenuto il contrario esatto di tutto questo, ha fortemente ammiccato alla “Right Nation” come non ha mai fatto prima (l’enigma del perché resta insoluto) e ha detto molte, moltissime verità, ma lo ha fatto ripetendo la lezione da 6, ogni tanto da 7, raramente da 8 e mai di più.

Milioni di elettori si faranno bastare questa pagella soprattutto perché dall’altra parte sta la Clinton con tutta la sua carica rivoluzionaria, ma mercoledì sera l’impressione che Trump abbia studiato male per l’interrogazione si è rafforzata confermando pure l’incapacità strutturale del tycoon alla lealtà. Non perché abbia indirizzato a Hillary una valutazione politicamente parlando verissima, «donna cattiva», ma perché, messo sotto pressione, ancora una volta non ha resistito ad abdicare a tutto ciò vorrebbe in teoria rappresentare disfacendo in un attimo il grande arazzo tessuto per lui da Wallace quando ha affermato di non voler rispettare il Paese che si proporrebbe di governare minacciando la possibilità di non accettare il verdetto delle urne. Così Trump ha già perso. Ha perso, comunque vada l’8 novembre, l’occasione storica di essere sul serio la “Right Nation”. Molti sperano che l’esito elettorale gli consenta almeno di esserne un servo inutile.