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PARI OPPORTUNITA'

Genitori in Guerra contro il viceministro

Le associazioni dei genitori contestano l'imposizione di programmi scolastici che inculcano l'ideologia gender, e rispondono al viceministro Maria Cecilia Guerra che difende la Strategia nazionale di prevenzione dell'omofobia.

Famiglia 27_01_2014
Maria Cecilia Guerra

Parliamo di Maria Cecilia Guerra, vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità. Se dici “pari opportunità” oggi devi pensare più alle pari opportunità per le persone omosessuali che a quelle per le donne. E così il vice-ministro non perde occasione di mostrarsi gay friendly. Lo scorso settembre, come è noto, venticinque coppie di connazionali erano state bloccate in Congo perché la Direction Générale de la Migration aveva deciso di sospendere i permessi di uscita per i minori in vista di una loro adozione internazionale. Il Congo, a seguito di alcune spiacevoli vicende che riguardavano soprattutto gli States e il Canada, non voleva dare in adozione i propri bambini a coppie gay. Il nostro governo assicurò quello congolese che da noi nessuna coppia omosessuale avrebbe mai potuto adottare un bambino. 

Ma il viceministro si mostrò d’altro parere e – fedele al suo cognome - fece brillare una mina diplomatica in un’intervista al Corriere del 9 gennaio scorso. “Lei pensa che sarebbe giusto concedere anche la possibilità di adozione alle coppie omosessuali?” chiede la giornalista. La Guerra risponde: “Personalmente penso di sì perché sono a favore di una piena equiparazione”. 

La vice ministro aveva poi risposto a La Nuova BQ prima di Natale difendendo le Linee guida per i giornalisti in tema di omofobia dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), un vero e proprio bavaglio per la stampa.

Da ultimo la Guerra, in un’intervista rilasciata lo scorso 21 gennaio all’Agenzia Sir, si è espressa con favore in merito al famigerato documento “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”, strategia che, partorita all’interno del suo dipartimento ed elaborata sempre dall’UNAR, mira ad estendere l’ideologia di genere in tutti gli ambiti del vivere civile: dalla scuola al lavoro, dai mass media alle istituzioni sanitarie.

“Un primo aspetto – tiene innanzitutto a precisare la vice ministro - è che non si può negare che esista un problema di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali o Lgbt nel nostro Paese”. Peccato che lo stesso documento, stilato dalle principali associazioni gay, smentisca le parole della Guerra. Infatti si indicano per il 2012 solo 135 casi rilevati di discriminazioni – tra l’altro non verificati e scovati d’ufficio (p. 5). Se aprissimo un numero verde per atti di discriminazione denunciati da interisti forse il numero sarebbe ben maggiore. Non c’è emergenza omofobia anche perché un altro studio realizzato a firma dell’Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford (Realizzazione di uno studio volto all’identificazione, analisi e al trasferimento di buone prassi in materia di non discriminazione nello specifico ambito dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, 2007-2013) ci informa che la percentuale di persone omosessuali le quali si dichiarano vittima di discriminazione oscilla tra il 2 e il 6 (p. 63). Stessa conferma viene dallo studio “A Global Divide On Homosexuality” del Pew Research Center di Washington: il 74% degli italiani dichiara la propria non ostilità verso l’omosessualità. 

Ma poco importa cosa ti dicono i fatti, l’importante è cosa ti suggerisce l’ideologia di genere: “Stiamo indicando che – continua il vice ministro - chi non è nel ‘modello’ della vita eterosessuale lui, sì, si trova ad essere spesso ‘discriminato’”. Capito l’equazione? “Omosessuale” uguale “discriminato”. Non basta altro.

Torniamo all’intervista. Domanda del giornalista: “Lei sa che questa ‘strategia’ è stata accusata di puntare ad ‘imporre un pensiero unico’ circa la condizione Lgbt. Cosa ne dice?”. Risposta della Guerra: “Anzitutto la strategia è stata validata dall’amministrazione, nel senso che c’è un ministro che si assume la responsabilità. Quindi non c’è niente che non sia stato condiviso al massimo livello e quando la si propone sappiamo tutti che nelle scuole ci sono degli organismi i cui rappresentanti sono anche gli studenti ed i genitori. […] Nel concreto si tratta di attività che vengono proposte, nessuna scuola è ‘obbligata’ a fare nessuna attività”. 

La critica alle parole del vice ministro è evidente: non è lecito proporre un’iniziativa diseducativa con la scusa che se gli istituti non la vogliono basta rifiutarla. E’ un po’ come dire: io ti inquino le falde acquifere, poi se vuoi puoi anche non aprire i rubinetti di casa. E poi nel documento dell’UNAR si parla di azioni di informazione, sensibilizzazione, monitoraggio e formazione: ben più che mere indicazioni orientative.

Continuiamo. All’obiezione che nelle scuole entreranno solo associazioni gay e non quelle dei genitori o di altro tipo il vice ministro ecco cosa risponde: “Il coinvolgimento delle realtà Lgbt è legato al fatto che queste hanno una rappresentanza specifica sul tema di cui si tratta. […] Le associazioni familiari invece non sono state coinvolte perché le famiglie sono rappresentate direttamente nella scuola, nei diversi organismi di gestione previsti”. A parti invertite: provate a far entrare delle associazioni pro-life a parlare di aborto nelle scuole pubbliche senza aver interpellato tutti, dai rappresentanti dei genitori al bidello. Non solo non vi faranno entrare ma vi bolleranno come scaltri sobillatori di giovani coscienze. L’unica speranza di riuscita sarebbe un contraddittorio in classe con associazioni abortiste. 

Inoltre, come annota un comunicato stampa redatto dalle associazioni di genitori della scuola A.G.E., AGeSC e FAES a commento delle parole del vice ministro, “a) il confronto fra il 'parere’ di un piccolo gruppo di genitori di una scuola e ‘l’indicazione’ che arriva da un Ministero dell’Istruzione che gestisce tutte le scuole statali appare in partenza ‘sbilanciato’ a favore di quest’ultimo; b) se il Ministero decide da solo cosa ‘indicare’, perché ha istituito un Forum Nazionale delle Associazioni di genitori della scuola come organo consultivo?”. Insomma: si sono scavalcati i genitori (rectius: si sono discriminati), loro che sono i primi soggetti competenti nell’educazione dei figli. Ci venga perdonato il facile gioco di parole, ma Guerra ha dichiarato guerra alle famiglie.

Sempre in questo comunicato si fa poi notare che, in merito a questa decisione del governo presa senza aver ascoltato i pareri di nessuno, “una discussione fra i rappresentanti politici eletti dai cittadini e un confronto con tutte le rappresentanze della società civile sarebbero più adeguati per arrivare a decidere su temi decisamente delicati che vanno ad impattare direttamente nelle scuole sull’educazione delle giovani generazioni, a partire dalle scuole dell’infanzia”.

La strategia prevista dal documento del Dipartimento Pari Opportunità non è rimasta sulla carta, ma sta prendendo piede in tutta Italia sulla scorta delle indicazioni contenute nel Decreto Legge 104/2013. L’operazione costerà a tutti noi 500mila euro più altre risorse previste dal Decreto citato, senza poi contare i 10 milioni di euro che si vorrebbero dare alle associazioni gay. La spending review non può essere discriminatoria.