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STRATEGIE

I generali del Pentagono studino Lawrence d'Arabia

Imporre all’esercito iracheno i modelli e l’organizzazione delle forze armate occidentali è uno sforzo inutile e sbagliato. Il Pentagonio dovrebbe studiare bene le strategie militari di Lawrence d'Arabia. Lo afferma generale in congedo Robert H. Scales, autorità in campo militare, ex comandante dell’Army War College.

Esteri 08_07_2015
l tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, noto con il nome di Lawrence d'Arabia

Gli Stati Uniti, patria del linguaggio politicamente corretto, riescono a volte a stupire per la schiettezza con cui alcuni opinionisti ed esperti hanno la capacità di arrivare al cuore del problema ignorando i filtri dell’opportunismo e dell’ipocrisia ormai così diffusi da risultare banali. Il caso del generale in congedo Robert H. Scales, che fino a 15 anni or sono comandava l’Army War College, è un perfetto esempio di pragmatismo bellico e in un intervento sul Wall Street Journal ha spazzato via in poche righe oltre un decennio di aria fritta e luoghi comuni che hanno costituito la base degli errori compiuti da Usa e alleati in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.

Secondo Scales imporre all’esercito iracheno i modelli e l’organizzazione delle forze armate occidentali è uno sforzo inutile e metodologicamente errato poiché gli arabi combattono meglio in formazioni organizzate attorno a solidi legami familistici e comunitari, più che anonimamente inquadrati sotto una bandiera nazionale. Tanto più che in Iraq, anche durante il regime di Saddam, non sono mai mancate spaccature e scontri tra le forze militari basate sulla componente sunnita (specie la Guardia Repubblicana i cui componenti erano scelti tra i giovani dei clan più vicini al regime) e i ribelli curdi e sciiti. Secondo Scales la sua valutazione trova conferma proprio nell’attuale guerra contro lo Stato Islamico in cui l’esercito regolare di Baghdad passa da un tracollo all’altro mentre il peso della guerra ricade sempre di più sulle milizie scite strutturate su base religiosa e tribale. Una tendenza visibile anche in altri scenari bellici dei nostri giorni dalla Nigeria alla Libia, ma che in Iraq ha assunto dimensioni ragguardevoli se si considera che negli ultimi tempi quasi 3 mila militari sciti dell’esercito regolare hanno dato le dimissioni per andare a combattere con le brigate Badr.

I motivi? Maggiore affidabilità dei reparti perché animati da maggiore coesione, paga più alta, mezzi più potenti (quasi tutte le armi pesanti  sono state sottratte all’esercito e distribuite alle milizie scite) e forse anche una disciplina meno rigida considerati abusi e violenze di cui si sono macchiate le milizie scite nelle aree sunnite strappate al controllo del Califfato. Secondo Scales, gli Stati Uniti avrebbero dovuto apprendere questa lezione già nel 1991, quando liberarono il Kuwait penetrando anche in territorio iracheno e sconfiggendo in una settimana di operazione terrestre  il quarto esercito al mondo per numero di effettivi. Fu una vittoria schiacciante che sconsigliò di porsi domande sulle capacità degli eserciti arabi anche se Scales ricorda che un generale statunitense di cui non cita il nome, reduce dal Golfo, fu l’unico a valutare l’esito del conflitto secondo parametri critici. «Gli eserciti arabi non si adattano molto bene a questo tipo di guerre», spiegò il generale a Scales. «Gli Stati Uniti non hanno combattuto soltanto contro forze armate arabe, ma anche al loro fianco, e sauditi e siriani non si sono dimostrati molto migliori della Guardia repubblicana di Saddam Hussein». 

A un quarto di secolo di distanza, la valutazione è forse oggi più politicamente scorretta di quanto potesse esserlo nel 1991 ma, sottolinea Scales, «trova nuove e schiaccianti conferme in tutti i principali scenari di crisi regionale». I limiti delle forze armate regolari arabe sono evidenti nel conflitto civile siriano, sono stati ancor più evidenti in Libia e stanno emergendo in Yemen, dove la soverchiante e ben finanziata macchina da guerra saudita non riesce ad avere la meglio sulle milizie sciite Houti. A ben guardare nulla di nuovo. Basterebbe rileggersi “I sette pilastri della saggezza” di Lawrence d’Arabia per trovare tutto quelle che c’è ancor oggi da sapere su come combattono gli arabi, con poche eccezioni. Gli arabi, sostiene Scales, «si trovano a loro agio in formazioni articolate organicamente attorno a gruppi familiari che condividono ben di più della stessa bandiera nazionale». In pratica, le milizie tribali, le stesse che Lawrence mobilitò, riunendole, contro i turchi ma che dopo ogni vittoria litigavano per spartirsi il bottino. E l’ufficiale britannico dovette lottare a lungo con il suo comando al Cairo per scoraggiare Londra dall’idea di addestrare gli arabi come un esercito regolare invece di impiegarli in una “guerra per bande”.

Caratteristiche comuni non solo agli arabi ma a dire il vero anche a molti eserciti africani e asiatici, come ad esempio quello afghano: in genere negli Stati dove l’unità nazionale non è mai riuscita a scavalcare i legami tribali ed etnici. Le unità militari arabe , afferma Scales, «si trovano a loro agio soprattutto quando operano sulla difensiva. Conoscere personalmente il soldato al tuo fianco rafforza morale e determinazione, ma aiuta assai meno nel caos di un’avanzata offensiva». Come non ricordare le quattro guerre condotte dagli eserciti arabi contro Israele, tra il 1948 e il 1973, tre del quale iniziate con pesanti offensive arabe e tutte finite con brucianti disfatte. Invece, da quando il confronto militare con Israele è affidato a formazioni di milizia costituite su base locale, etnicamente e ideologicamente omogenee, Gerusalemme ha maggiori difficoltà a combattere e non riesce più a conseguire successi decisivi.

Le considerazioni espresse nell’articolo inducono Scales a sostenere che gli Stati Uniti dovrebbero adottare un approccio «che costituisce un anatema rispetto alla convinzione radicata (in Occidente) che la commistione etnica e culturale faccia la forza. La storia recente suggerisce che le società mediorientali hanno convinzioni opposte». Verrebbe da aggiungere non solo quelle mediorientali perché anche in Europa gli slogan propinatici in questi anni sul multiculturalismo e le «differenze che arricchiscono» stanno naufragando miseramente presso l’opinione pubblica che vede compromesse le proprie radici, gli equilibri locali e lo stile di vita. In termini militari Scales sostiene che gli eserciti regolari arabi non sono adatti alle guerre d’attrito, prolungate e logoranti, come sta imparando a sue spese il presidente siriano Bashar al Assad.

Per questa ragione, l’offensiva irachena contro lo Stato islamico nella provincia di al Anbar «funzionerà soltanto se sarà fulminea, metodica e accompagnata da un supporto aereo statunitense assolutamente soverchiante», con «centinaia di sortite al giorno», e con l’obiettivo «non tanto di riconquistare il territorio ma di spezzare la morale dei combattenti dell’Isis». Peccato che gli americani e l’intera Coalizione abbiano ben poca voglia di impegnarsi in tal senso e di sortite aeree ne effettuano in media solo una ventina al giorno.