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RIPASSINO DI STORIA

Il buonismo ecumenico non si addice a San Francesco

L’incontro fra San Francesco e il Sultano, nel lontano 1219, viene ormai citato a ripetizione per giustificare una certa apertura all'islam. Ma la rinuncia ad annunciare Cristo, tipica di certo ecumenismo odierno, è lontana mille miglia dallo spirito con cui Francesco - uomo profondamente medievale - sfidò apertamente Malik al-Kamil.

Ecclesia 22_08_2016
San Francesco e il Sultano (Giotto)

Ormai è una certezza: l’incontro fra San Francesco e il Sultano, nel lontano 1219,  è diventato in questi tempi di nuovo furore islamico modello di perfetto dialogo interreligioso, con una fantasiosa contrapposizione tra il Santo di Assisi e il presunto spirito guerrafondaio che animava allora la Chiesa. Si teorizza così uno "spirito dell'incontro" contro la ricerca ossessiva di un nemico.

Le fonti francescane ci riferiscono però di un Francesco tutt’altro che incline ai dogmi contemporanei del politicamente corretto e dell’ecumenismo da terzo millennio. Francesco, si sa, volle partecipare alla Crociata in veste di “cappellano militare”, di colui cioè che desidera partecipare a quella esperienza (che lo storico Cardini definì come un “pellegrinaggio armato”) con autentica vocazione al martirio. Francesco era ben consapevole dei rischi che avrebbe incontrato, ma soprattutto ben conosceva lo spirito che animava le Crociate.

Nella vita di san Francesco d’Assisi narrata da san Bonaventura il Serafico,  insieme al suo compagno Pietro di Cattanio si recò in Terrasanta «tra gli infedeli, a portare con l’effusione del suo sangue, la fede nella Trinità». Secondo il Bonaventura ciò che muove Francesco verso luoghi dove  imperversava «una guerra implacabile» tra Cristiani e Saraceni, era la conquista della «sospirata palma del martirio» e la conversione degli infedeli. Ed è qui che l’ermeneutica moderna e secolarizzata della figura di Francesco (ormai diventata monolitica anche in alcuni ambienti cattolici) va in crisi.

Cercare di “normalizzare” la figura di San Francesco, di liberarlo dagli afflati spirituali del tempo e appiattirlo in una visione orizzontale della vita significa togliere Dio dal suo cuore. Significa, prima di tutto, tradire la fede dell’uomo prima ancora che del santo, oltre che la storia. In fondo, si fa fatica a ripeterlo, Francesco era un uomo medievale e come tale aveva una visione della sua vita orientata verso l’infinito e la vita eterna. Nel Medioevo cristiano l’uomo è veramente se stesso solo se ha il suo centro in Dio, in un Dio fattosi uomo, attraverso il quale egli può comprendere la sua vera umanità.

Nell’arte medievale, infatti, il mondo empirico, così come appare all’uomo, non viene quasi mai rappresentato, non perché non si considerasse degna l’esistenza terrena, tutt’altro: perché si era consapevoli che quell’esistenza, con i suoi dolori e le sue gioie, acquistava vera dignità solo in una prospettiva eterna. Arte, dunque, non fine a se stessa o tesa alla gloria dell’artista, ma orientata alla “raffigurazione” che conduce a Dio.  

Di tutto questo Francesco ne era persuaso e pervaso e nell’incontro con il sultano Malik al-Kamil riaffermò il vero spirito che ardeva dentro di lui: la fede in Gesù Cristo unico Dio. È questo che gli permetterà di rispondere al sultano, che lo attaccava citando addirittura il Vangelo: «Non sembra che abbiate letto per intero il Vangelo di Cristo nostro Signore – lo ammonì Francesco -. Altrove dice infatti: ‘Se un tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo lontano da te’ […], con il che ci volle insegnare che dobbiamo sradicare completamente […] un uomo per quanto caro o vicino — anche se ci fosse caro come un occhio della testa — che cerchi di toglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Per questo i cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete. Se però voleste conoscere il creatore e redentore, confessarlo e adorarlo, vi amerebbero come loro stessi».

Di ritorno dalla Crociata Francesco scrisse la sua “Regola” non bollata e in questo testo ribadì proprio la posizione che egli aveva tenuto di fronte al sultano d’Egitto come modello di vero dialogo. «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, […] e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio».

San Francesco vive sino alla fine la coerenza al Vangelo, senza mediazioni, e sa che la cosa essenziale è l’annuncio della Verità. Il “metodo” di San Francesco sembra dunque lontano dalle rivisitazioni odierne che lo vorrebbero addirittura prostrato davanti al sultano implorante il perdono per le malefatte della Chiesa. E non può neanche essere confuso con un dialogo «alla pari», nel quale gli interlocutori difendono le proprie posizioni senza vantare pretese l’uno sull’altro.

Il dialogo, per un cattolico, non può essere mai fine a se stesso o utilizzato per soddisfare la curiosità della diversità dell’altro. Il dialogo deve essere il primo passo verso l’annuncio del Regno di Dio, perfino sino al martirio, perché come ricorda il Santo nella regola «tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che si sono donati e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: "Colui che perderà l'anima sua per causa mia la salverà per la vita eterna" (Cfr. Lc 9,24.; Mt 25,46) […] ma “chiunque si vergognerà di me e delle mie parole, il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando tornerà nella gloria sua e del Padre e degli angeli" (Lc 9,26)».