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IL CASO

Il Cai, le croci e le montagne (che ci parlano di Dio)

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Sul suo portale il Club Alpino Italiano disapprova l’installazione di nuove croci sulle vette; poi fa un parziale dietrofront: non c’è «una posizione ufficiale». All’origine, il mancato riconoscimento della meta eterna a cui la Croce e le stesse montagne ci richiamano.

Editoriali 27_06_2023
Croce di vetta. Licenza Pixabay

«Prima che nascessero i monti / e la terra e il mondo fossero generati / da sempre e per sempre tu sei, Dio» (Sal 89,2). Le lodi mattutine di ieri, 26 giugno, ci ricordano che l’intera creazione - dai monti a tutta la realtà di cui noi stessi facciamo parte - è opera dell’Eterno, cioè di Dio. Esse ci parlano dello stesso Dio che si è incarnato nella pienezza dei tempi, condividendo tutto della condizione umana (tranne il peccato) fino a lasciarsi crocifiggere per la nostra salvezza. È quindi curioso, sebbene non originale, che oggi, A. D. 2023, si possa definire «anacronistico» quel simbolo, la croce, che ricorda l’evento centrale nella storia dell’uomo, richiamando evidentemente Colui - Gesù Cristo - che ha voluto amare i suoi figli fino al dono della sua stessa vita.

Il caso è già ben noto alle cronache: tutto nasce dalla posizione espressa da esponenti di spicco del Cai, il Club Alpino Italiano, a proposito delle croci innalzate sulle cime delle montagne. Ricostruiamo i fatti.

Giovedì 22 giugno, all’Università Cattolica di Milano, si è tenuto un convegno con relatori di diversa estrazione che si sono confrontati sui temi presenti nel libro Croci di vetta in Appennino, di Ines Millesimi. Il convegno era stato annunciato il 13 giugno attraverso un articolo sulla testata online del Cai, Lo Scarpone, in cui Pietro Lacasella, curatore del portale, a proposito delle croci di vetta, scriveva che è sbagliato rimuoverle ma è «anacronistico» innalzarne altre, perché «la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale», mentre le vette dovrebbero essere considerate «come un territorio neutro».

La stessa posizione - né rimuovere le croci esistenti né innalzarne di nuove - veniva espressa al convegno alla Cattolica dal direttore editoriale e responsabile delle attività culturali del Cai, l’ateo dichiarato Marco Albino Ferrari. In un solco simile anche la linea dell’autrice del libro presentato all’evento, Ines Millesimi, secondo cui «la croce non può essere un segno divisivo». Lo Scarpone ritornava quindi sul tema con un articolo - Croci di vetta: qual è la posizione del CAI? - sempre a firma di Lacasella, per ribadire, a sintesi del convegno, il concetto che il Cai rispetta le croci esistenti e si occupa anche della loro manutenzione, ma il presente impone di «disapprovare la collocazione di nuove croci e simboli», per via del «dialogo interculturale» e delle «nuove esigenze paesaggistico-ambientali». Anche questo è un paradossale segno dei tempi: accantonare Dio in nome dell’ambiente e delle religioni (e pazienza che quella rivelata sia una sola).

La posizione del Cai ha suscitato malcontento tra diversi soci. E ha portato vari leader di centrodestra a intervenire, forse anche per un malinteso sulla rimozione: malinteso che comunque - stando a quanto riportava il sito del TgCom il 24 giugno - avrebbe coinvolto anche alcune guide di Alagna (provincia di Vercelli) che avevano già cominciato a rimuovere le croci «per ammassarle in un memoriale».

A seguito dell’intervento della maggioranza al Governo - incluso il Ministero del Turismo, che vigila per competenza sul Club Alpino Italiano - il presidente dello stesso Cai, Antonio Montani, ha diffuso una nota per dire che non c’è «una posizione ufficiale» sulle croci di vetta e quanto pubblicato in precedenza «è frutto di dichiarazioni personali espresse dal direttore editoriale Marco Albino Ferrari […]. Personalmente, come credo tutti quelli che hanno salito il Cervino, non riesco ad immaginare la cima di questa nostra montagna senza la sua famosa croce». La nota, a ben vedere, è solo un parziale dietrofront, perché toglie l’aura di ufficialità alla posizione espressa da Ferrari-Lacasella, ma nulla dice su eventuali nuove installazioni di croci.

E questo non è un punto secondario. Le croci di vetta di cui si parla - come riporta il portale del Cai - risalgono per la maggior parte al periodo compreso tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo. Dunque, innanzitutto, oggi non c’è questa presunta “emergenza” di evitare chissà quale proliferazione di nuove croci. D’altra parte, presentare la croce come anacronistica e divisiva pone come minimo un problema di prudenza, perché il discorso investe evidentemente non solo le croci sulle vette - il che è già problematico - ma tutte le croci e i simboli cristiani negli spazi e luoghi pubblici. Le assurdità da politicamente corretto della nostra epoca - quelle sì divisive, nel senso negativo del termine - stanno lì a ricordarcelo. E la storia ci dice che quando serpeggia un clima culturale così, basta nulla perché dalla persecuzione ai simboli si passi a quella alle persone che in quei simboli si riconoscono.

Riguardo, poi, all’invocata neutralità o “laicità”, c’è bisogno di ricordare - come faceva Stefano Fontana sulla Bussola - che uno Stato veramente laico non è né antireligioso né indifferentista, ma dovrebbe interessarsi, per il bene comune, alla verità delle religioni. Del resto, quando il Signore dice di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, è chiaro che i due termini non sono da intendere come uguali, perché l’autorità di uno (Cesare) discende ed è subordinata a quella dell’Altro (Dio), il quale ci chiama ad aderire alla verità, che non è un’ideologia bensì una persona: Suo Figlio, Gesù crocifisso e risorto.

La croce non ammette neutralità. In questo senso, drammatico ma orientato al bene, divide, dovendo noi scegliere se stare con Chi vi è stato inchiodato o contro di Lui, se con la Sua stirpe o con quella del divisore per eccellenza (il diavolo). Nel primo caso si tratta di seguire questa parola di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Quali siano le conseguenze del mettere in pratica un simile insegnamento, o rigettarlo, è facilmente comprensibile. Peccato che personaggi di punta del Club Alpino Italiano, oggi, non lo riconoscano.

Eppure, uno che fu socio del Cai, il beato Piergiorgio Frassati, aveva ben chiaro che i monti e le loro cime, oltre a essere un motivo di gioia per i sensi, ci chiamano a riconoscerci figli ed elevare la nostra anima a Dio: «Ogni giorno m’innamoro sempre più delle montagne e vorrei, se i miei studi me lo permettessero, passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria pura la Grandezza del Creatore», scriveva il giovane Frassati, beatificato da un altro grande amante delle montagne, san Giovanni Paolo II. Anche lui carico di stupore di fronte alla bellezza delle vette e alla meta eterna di cui esse, in un’ottica autentica, sono metafora.