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BALCANI

Il futuro incerto di un Kosovo sempre più integralista

Le violente manifestazioni di Mušutište sono solo l'ultimo esempio, in ordine di tempo, di quel che si vive in Kosovo. I nazionalisti kosovari musulmani hanno marciato per impedire ai serbi di tornare nelle loro abitazioni e di celebrare l'Assunzione di Maria. Fra questo e le antiche chiese distrutte, è un disegno per distruggere il passato serbo.

Libertà religiosa 02_09_2016
La manifestazione a Musutiste

Fra pochi mesi i giovani nati fra gli spari della guerra civile in Kosovo diventeranno finalmente maggiorenni, ma non potranno dire di vivere in una terra realmente pacificata. La situazione nell’ex Provincia autonoma serba, infatti, resta tesa e probabilmente solo la presenza del contingente internazionale della KFOR evita che scoppino nuove violenze.

Priština, infatti, richiede ai paesi vicini e all’Europa di essere considerata uno Stato indipendente e sovrano a tutti gli effetti, ma ancora non è in grado di garantire a tutti i cittadini di poter vivere in tranquillità senza dover temere per la propria incolumità. A conferma di ciò, pochi giorni fa oltre duecento persone hanno violentemente manifestato nella cittadina di Mušutište (a sud-ovest del Kosovo) per impedire a circa 160 serbi di ritornare nelle proprie abitazioni e, soprattutto, di celebrare l’Assunzione di Maria, una delle festività più importanti per gli Ortodossi. Il tardivo intervento della polizia non è riuscito a riportare la calma, anche perché la stessa è stata aggredita dai nazionalisti kosovari. Sebbene l’episodio sia stato condannato da più parti, anche dall’Esecutivo locale, esso dimostra che l’intolleranza religiosa è ancora diffusa e che la libertà di culto non è un diritto da dare per scontato. 

Il caso di Mušutište riassume perfettamente la sorte di molti altri villaggi che, sopravvissuti alle guerre contro i turchi e a due conflitti mondiali, sono stati irrimediabilmente danneggiati dall’odio divampato nell’ultimo ventennio. Quasi tutti i 1000 serbi residenti nel villaggio sopracitato, infatti, furono costretti a lasciare le proprie case nel corso del 1999 e sia il Monastero della Santa Trinità (risalente agli inizi del ‘400), che la Chiesa della Vergine Odigitria (inizi del ‘300) furono distrutte, così come anche le centinaia di abitazioni poste nelle vicinanze. Ad oggi non vi è stato alcun intervento per riparare i danni o permettere quantomeno le celebrazioni religiose, a conferma del fatto che in quella zona i non musulmani continuano ad essere “ospiti” non desiderati.

Sebbene l’intolleranza religiosa colpisca tutte le comunità cristiane, a pagare il prezzo più alto sono stati sicuramente gli Ortodossi, che hanno visto radicalmente ridursi la propria influenza (nel 1921 rappresentavano quasi il 30% della popolazione complessiva della Provincia) e, soprattutto, scomparire gran parte del proprio patrimonio artistico e architettonico. La distruzione dei luoghi di culto, però, non deve essere interpretata come semplice frutto dell’odio represso o dell’inciviltà, poiché rientra perfettamente in una più ampia strategia volta a modificare nel profondo la storia locale. Eliminando chiese e monasteri, infatti, i nazionalisti albanesi negano che quelle terre siano state abitate in precedenza da popoli con culture e tradizioni religiose differenti, il che è funzionale al loro desiderio di apparire i legittimi possessori del Kosovo e di invalidare la tesi di Belgrado secondo cui la sua ex provincia sarebbe il “Cuore della Serbia” (Kosovo Srce Srbije). Alla luce di tutto ciò sembra particolarmente difficile credere che nel prossimo futuro si potrà assistere ad un reale ritorno “a casa” delle migliaia di persone che lasciarono le proprie case per sfuggire all’UCK e ai suoi sostenitori, come invece sostengono le autorità locali allo scopo di accontentare, almeno sulla carta, le richieste della UE di garantire il rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini.

Ciò dipende sia dal fatto che nulla è stato fatto per ricostruire le loro abitazioni distrutte nel corso dei pogrom anti-serbi, sia dall’ostilità dei kosovari nei confronti di questa ipotesi. A ciò va aggiunto anche che nel corso degli ultimi anni nel Paese si è assistito ad una progressiva affermazione di una visione più rigida e, in molti casi, estremista dell’islam. Come ormai universalmente riconosciuto, infatti, i forti investimenti Sauditi e Turchi hanno profondamente mutato l’attitudine dei locali nei confronti della religione, spingendoli anche ad aderire alla Jihad. Come riporta il New York Times, infatti, negli ultimi due anni le autorità di Priština hanno individuato oltre 300 volontari partiti alla volta della Siria e dell’Iraq per combattere nelle fila dell’ISIS. Nonostante le dimensioni del fenomeno, le autorità locali non sono riuscite ad intervenire in maniera convincente e risolutiva, tanto che il Kosovo rappresenta ancora una base per i volontari diretti al fronte. Ciò è dovuto in parte anche alla precedente militanza di molti nei gruppi armati nazionalisti che combattevano i serbi e che, con la fine del conflitto, hanno continuato ad addestrarsi e ad aver accesso alle armi. 

In conclusione, il futuro del Kosovo resta quanto mai nebuloso. Se le autorità locali non riusciranno a controllare la dilagante intolleranza, infatti, è probabile che la convivenza fra diversi gruppi etnici diventi sempre più difficile e che, soprattutto, le tensioni interne si propaghino anche all’estero, come peraltro sta già avvenendo in Macedonia e, in misura minore, in Montenegro. Si può dire, pertanto, che è urgente trovare una soluzione al problema delle rivendicazioni dei nazionalisti albanesi, poiché altrimenti si corre il rischio di permettere l’innesco di un’altra bomba tragicamente simile a quella bosniaca.