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DIPLOMAZIA

Iran nucleare, non tutti festeggiano l'accordo

L'accordo sul nucleare fra il gruppo di contatto P5+1 e l'Iran è salutato con successo da molti, ma non da tutti. E' una vittoria della diplomazia europea e la Mogherini ha un suo primo grande risultato da portare a casa. E' un successo per l'amministrazione Obama. E piace anche alla Russia. Ma Israele e Arabia Saudita si sentono abbandonati.

Esteri 15_07_2015
Hassan Rouhani

Con l’Iran l’accordo è fatto. La Repubblica Islamica accetta di limitare il suo programma nucleare in cambio della fine del regime delle sanzioni economiche. E' questo il risultato dei lunghissimi negoziati (finiti con due settimane di ritardo) che si sono tenuti a Vienna, fra l'Iran e il gruppo di contatto internazionale "P5+1" costituito da Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania. La giornata, subito definita “storica” dai media, è una vittoria per Federica Mogherini, che ha partecipato in veste di Alto Rappresentante della Pesc (Politica Estera e di Sicurezza Europea), è un successo per John Kerry, che ha fortemente voluto l’accordo, è stata salutata come un passo avanti dallo stesso Iran (dopo 12 anni “il mondo finalmente riconosce la legittimità del nostro programma atomico”, ha dichiarato il presidente Hassan Rouhani) ed è stata una prima occasione di cooperazione diplomatica di successo fra Usa e Russia dopo due anni di gelo. La festa è per tanti, insomma, ma non per tutti. I più preoccupati sono Israele e Arabia Saudita. Le conseguenze di questo accordo sono un’incognita.

Cosa preveda il testo, di preciso, non si sa ancora. La versione ufficiale deve essere ancora pubblicata. Lungi dall’essere un accordo definitivo sul programma nucleare iraniano, si tratta di una tappa in un processo negoziale. Prevede, da parte dell’Iran, l’accettazione di ispettori dell’Onu, che verifichino sul posto la natura del programma nucleare iraniano, per capire se è veramente solo civile (come dichiara Teheran) o mira alla costruzione di armi atomiche. Potranno accedere anche al sito di ricerca militare di Parchin, finora completamente chiuso al mondo esterno, oltre che intervistare scienziati nucleari iraniani. Se si dovesse riscontrare un mancato rispetto delle clausole dell’accordo, le sanzioni economiche nei confronti dell’Iran saranno re-istituite nel giro di 65 giorni, dalla data della denuncia. Rimarranno le sanzioni militari, per otto anni quelle riguardanti i missili e per cinque anni quelle sulle altre armi. Quanto alle clausole sul programma nucleare, stando a quel che sappiamo dalle anticipazioni e dalle dichiarazioni di Barack Obama, l’Iran deve: rimuovere i due terzi delle centrifughe per la raffinazione dell’uranio (raffinando, cioè arricchendo, l’uranio si ottiene materiale fissile utile per la fabbricazione di armi nucleari), disfarsi del 98% dell’uranio già arricchito, riconvertire l’impianto di Arak, con l’assistenza della Cina, per eliminare ogni sospetto che possa produrre plutonio, anch’esso utile per la fabbricazione di armi nucleari. Il presidente statunitense si dice particolarmente soddisfatto, perché questi termini dell’accordo “sbarrano ogni strada alla costruzione di armi nucleari”.

Quel che è cambiato è soprattutto l’atteggiamento americano. L’Iran ha sempre mantenuto i suoi punti fermi: “diritto al nucleare”, prosecuzione del programma nonostante le sanzioni, rifiuto di un regime troppo rigido di ispezioni. E’ l’America di Obama ad aver gradualmente cambiato atteggiamento, dal confronto duro contro l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad fino all’attuale disgelo con il suo successore Hassan Rouhani. Se prima gli Usa contemplavano anche l’opzione militare, da Obama in poi l’hanno esclusa. Se prima, nel negoziato, Washington chiedeva la fine del programma di arricchimento dell’uranio, ora si limita a chiederne la riduzione. Se prima chiedeva lo smantellamento degli impianti sospetti, ora ne chiede la riconversione. I toni moderati dell’ultimo presidente iraniano sono parte della spiegazione. Ma non è tutto. Ad essere cambiata è la geografia del Medio Oriente, nel suo complesso. Con l’Iraq diviso, di fatto, in tre Stati, uno dei quali è il Califfato Islamico, gli Usa hanno accettato che sia l’Iran a presidiare il Sud, inclusa la capitale Baghdad. Sempre da un anno a questa parte, da quando è comparso il Califfato sulla scena, anche in Siria l’obiettivo di rovesciare il regime di Bashar al Assad (alleato di Teheran) non è più prioritario per gli Usa: dal loro punto di vista, è ormai meglio che si mantenga a lungo un equilibrio fra le forze in campo, con Assad che contiene l’Isis e viceversa, mentre la vasta galassia dei ribelli dell’Esercito Siriano Libero si riorganizza pur senza avere la forza di vincere la guerra. Infine, se gli Usa riprendono il confronto con la Russia, l’Iran serve amico. Sia per la sua posizione, a cavallo fra il Golfo e l’Asia Centrale, sia perché è un alleato di Mosca nel Golfo. La diplomazia Usa si sta adoperando, dunque, per rendere suoi amici gli alleati di Putin: lo si è visto con Cuba nei mesi scorsi, lo si sta vedendo adesso anche con l’Iran.

Dietro al cambio di rotta della Casa Bianca, vi sono anche motivi ideologici, ben identificabili: Obama ha sempre seguito le orme di Carter, il presidente che lasciò che Rheza Pahlavi (ultimo scià di Persia) venisse rovesciato dalla rivoluzione di Khomeini. I Democratici americani hanno sempre sognato un Iran laico, progressista e democratico, individuando nel passato regime di Moussadeq (rovesciato da un golpe nel 1953, dopo aver nazionalizzato la Anglo-Iranian Company) il vero Iran da resuscitare. Un po’ per il loro ideale anti-colonialista, un po’ perché ritengono che sia quella la vera aspirazione del popolo iraniano, i progressisti americani hanno sempre sognato, non dichiaratamente, un nuovo Moussadeq per l’Iran. E hanno sempre provato un malcelato senso di colpa per la mancanza di democrazia nel paese. Finora non hanno mai trovato un leader laico, progressista e democratico in Iran: Carter si era illuso sulla rivoluzione del 1979, finché gli studenti islamici non hanno preso in ostaggio l’intero corpo diplomatico americano. Si sono illusi con il presidente riformatore Khatami, finché non si è scoperto il suo programma nucleare segreto. E tutti, da Khomeini in poi, hanno sempre implementato rigidamente la legge coranica all’interno dell’Iran, facendo sparire ogni traccia di secolarismo, progressismo, democrazia e liberalismo. Rouhani sta di nuovo facendo sognare l’amministrazione democratica. Ma probabilmente la Casa Bianca spera di veder sorgere un Iran che non è mai esistito e mai esisterà, perché non ha mai tenuto conto della natura profondamente religiosa e settaria del regime degli ayatollah.

Esattamente come l’Isis crede nello scontro finale imminente (a Dabiq), così il vertice iraniano ha una sua teoria degli ultimi giorni e dello scontro finale fra le forze del bene e quelle dei miscredenti, in vista del ritorno del XII Imam, che nella tradizione sciita è nascosto al mondo fino alla fine dei tempi. Non si può comprendere la Rivoluzione Islamica di Khomeini, senza aver in mente questo scenario: è una rivoluzione compiuta in vista dell’apocalisse. E l’ordine viene rigorosamente mantenuto sotto la legge islamica, per prepararsi ad essa. Detto questo, non vuol dire che l’Iran voglia dotarsi di armi atomiche per scatenare l’apocalisse. Ma è chiaro che il regime iraniano ragioni con parametri completamente differenti rispetto a quelli occidentali e non intenda affatto aprirsi alla democrazia al suo interno, né alle potenze “miscredenti” all’estero. Ed è più che probabile che veda un accordo con il “Grande Satana” solo come un espediente, per raggiungere altri scopi. Questo gli Usa, soprattutto questa amministrazione americana, paiono non capirlo o sottovalutarlo. A non sottovalutarlo sono invece l’Arabia Saudita, che teme la rivoluzione sciita sul suo territorio, e Israele, il “Piccolo Satana”, che teme l’annientamento.

L’opposizione più plateale arriva dal governo di Benjamin Netanyahu in Israele. Non solo ritiene che il regime di controllo sia troppo blando (le ispezioni, appunto, non sono accettate automaticamente), ma si oppone all’idea stessa che vengano rimosse le sanzioni economiche imposte all’Iran. Sbloccando i fondi congelati all’estero e rimuovendo ogni barriera all’industria energetica iraniana, Teheran può avere più fondi a disposizione per finanziare milizie e gruppi terroristici all’estero. Cosa che, per altro, sta già facendo: Hezbollah, Hamas (che pure è sunnita), le milizie sciite irachene, gli Houti nello Yemen, sono tutti foraggiati, armati e in alcuni casi direttamente comandati dal regime degli ayatollah. E sono tutti gruppi dichiaratamente nemici sia di Israele che degli Usa, tutti responsabili di atti di terrorismo, anche in Europa, come si è visto nell’attentato di Burgas (Bulgaria) ad opera di Hezbollah nell’estate 2012. Il rischio concreto, immediato, dunque, non è tanto l’atomica iraniana, ma il rischio terrorismo. Quanto all’atomica, è la sola prospettiva che l’Iran possa procurarsela che può causare disordine nei già fragili equilibri mediorientali. L’Arabia Saudita, contrariamente a Israele, non manifesta pubblicamente la sua preoccupazione, ma potrebbe giungere alla conclusione più drastica: ha già fatto conoscere la sua intenzione di comprare armi nucleari dal Pakistan. Non solo la monarchia saudita si sente minacciata dal Golfo, ma ora anche dallo Yemen, dove operano gli Houti. I due alleati di riferimento degli Usa nella regione, Israele e Arabia Saudita, insomma, sono i veri sconfitti dall’accordo, ne temono le conseguenze e potrebbero perdere rapidamente fiducia in Washington.