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IL MARTIRIO DI PADRE JACQUES

La chiesa per loro è un simbolo E per noi?

Il carattere anti-cristiano del terrorismo islamista è qualcosa che i suoi stessi leader sono i primi a rivendicare. In tale spirito, gli attacchi alle chiese hanno un deliberato ed evidente valore simbolico. Sono con ogni evidenza dei gesti in odium fidei. Mentre l’Europa censura se stessa e nega le proprie radici cristiane.

Editoriali 29_07_2016
La chiesa di Saint Etienne

Fermo restando il groviglio di motivi che ne ispira la volontà omicida, sta di fatto che l’odio per il cristianesimo è un elemento caratterizzante del terrorismo islamista contemporaneo. La parola “crociato” come sinonimo di “occidentale” compare già alla fine del secolo scorso. La si ritrova nel lessico e nei messaggi di Osama bin Laden (1957-2011), fondatore di al-Qaida e autore dei clamorosi e  cruenti attacchi che culminarono l’11 settembre 2001 nella distruzione delle Torri Gemelle di New York. Il carattere anti-cristiano del terrorismo islamista è dunque qualcosa che i suoi stessi leader sono i primi a rivendicare.

In tale spirito gli attacchi a chiese, in particolare durante le celebrazioni liturgiche, hanno un deliberato ed evidente valore simbolico. Sono con ogni evidenza dei gesti in odium fidei. Si pensi ai massacri di fedeli riuniti in chiesa per la messa di cui Boko Haram si è reso più volte responsabile in Nigeria. Più che mai tale valore è lampante nel caso dell’uccisione del sacerdote raggiunto e ucciso mentre sta celebrando la messa, come è accaduto in Francia lo scorso 26 luglio nel caso dell’assassinio di padre Jacques Hamel. 

Un delitto di cui non mancano purtroppo altri casi recenti, tra cui quello di due sacerdoti che vennero uccisi a Baghdad nel 2010 durante un attacco di al Qaeda alla cattedrale siro-cattolica della città. C’è pertanto qualcosa di tristemente paradossale nella derubricazione -- cui molti giornali e telegiornali indulgono -- dell’assassinio di padre Hamel a generico “attentato”. É chiaro che i suoi uccisori hanno scelto a ragion veduta il luogo e il momento in cui aggredirlo. Mentre insomma l’Occidente, e l’Europa in particolare, si affannano a censurare se non a negare le proprie radici cristiane, il loro rilievo viene colto molto lucidamente dal terrorismo islamista. 

D’altra parte, se si ha un minimo di attenzione per la realtà delle cose, basta tornare in Occidente dopo un soggiorno prolungato in altre parti del mondo per avvertire l’influsso cristiano sulla vita di ogni giorno, sul linguaggio, sulla stessa forma delle città e dei paesi, dove di regola la chiesa è al centro e si apre su una piazza che è poi l’allargamento del sagrato. La stessa questione dell’accoglienza di stranieri profughi così come viene vissuta in Occidente è il riflesso di una cultura di matrice cristiana. In altre culture, come nel caso dell’Estremo Oriente, non c’è alcuna disponibilità ad accoglierli; e se li si accoglie lo si fa solo per influsso occidentale. 

Come già in precedenza avemmo modo di osservare (clicca qui), le giovani generazioni musulmane vivono con grande disagio l’attuale incapacità dell’Islam a dare adeguata risposta alle sfide del mondo in cui viviamo: un disagio che in alcuni sfocia in una fuga verso l’abisso dell’omicidio-suicidio. É chiaro che questo naufragio generazionale – per natura sua ancor più forte nei giovani musulmani cresciuti in Occidente che in quelli che vivono nei Paesi islamici – deve in primo luogo interrogare l’islam. Qualcosa si sta muovendo al riguardo, e più di quanto si sappia e si dica in Occidente. 

Per parte nostra dobbiamo però domandarci che cosa possiamo fare noi. É evidente che il relativismo e il nichilismo di massa, ossia l’attuale cultura dominante del nostro mondo, non sono in grado di reggere tale sfida: da un lato, infatti, non hanno alcun fascino per le giovani generazioni musulmane e dall’altro privano le giovani generazioni “laiche” autoctone di qualsiasi capacità di affermazione consapevole e rispettivamente di tutela dei valori su cui la nostra società si fonda. 

In proposito,  c’è un episodio recente che per la sua esemplarità negativa merita di venire portato alla ribalta nazionale se non internazionale: è quello della città sarda di Olbia dove il sindaco Settimo Nizzi e la sua giunta hanno stabilito «per la particolare delicatezza dell'attuale situazione geopolitica, con fenomeni legati al terrorismo internazionale e per il carattere aconfessionale dell'amministrazione pubblica, di dover escludere» dagli edifici e altri spazi pubblici comunali «eventi e/o iniziative che abbiano ad oggetto attività religiose, argomenti di natura religiosa e/o che abbiano finalità di propaganda ed indottrinamento religioso, nonché che possano attenere all'interpretazione di testi sacri». 

Gli edifici e spazi in questione sono il locale Museo archeologico, un padiglione fieristico e l’anfiteatro di Porto Rotondo. È evidente che una mentalità come quella testimoniata di tale delibera muovono in direzione esattamente opposta alle urgenze che oggi abbiamo dinnanzi. In tale orizzonte, sarebbe tuttavia disastroso cadere nella trappola della “guerra di religione” opponendo cioè al terrorismo islamista un cristianesimo ridotto a ideologia.  Tanto meno però ci si deve autocensurare. Nel nostro Paese, e forse ancor più altrove in Europa, la Chiesa insegna meno di quanto non solo potrebbe ma soprattutto dovrebbe.  

Se viene meno l’autenticità dell’esperienza tutto va bene per andare fuori strada, anche il più limpido dei magisteri.  A fronte del collasso di tutte le altre maggiori agenzie educative la responsabilità educativa della Chiesa aumenta ulteriormente. Perciò stringe il cuore vedere quanto spesso le parrocchie e la galassia delle iniziative parrocchiali annacquano la loro proposta facendo, peraltro con difficoltà crescenti, delle attività di puro intrattenimento. Quando invece non accade che si muovano sulla scia della cultura dominante lasciandosi fissare l’agenda delle loro priorità dai giornali e dai telegiornali borghesi progressisti. 

Ormai, in genere soddisfatti i fondamentali bisogni materiali, oggi i nuovi poveri sono innanzitutto quelle masse di giovani, autoctoni o immigrati, che vagolano come foglie sbattute dal vento, vittime inermi del ciarpame del peggio della cultura di massa. Il pane di cui questi nuovi poveri hanno urgente bisogno sono delle proposte chiare  e non del semplice intrattenimento.