Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
LA RIFORMA DELLA PA

La Consulta stoppa il centralismo

La riforma Madia della P.A. è stata bocciata dalla Corte costituzionale, la quale ha sancito che lo Stato non può entrare in ambiti riservati all’autonomia regionale. E' una svolta che il governo non si aspettava perché la centralizzazione è il “marchio di fabbrica”  non solo della riforma costituzionale ma anche di ogni altro provvedimento-chiave del governo.

Politica 28_11_2016
Il ministro Marianna Madia

In quattro suoi punti-chiave (selezione dei dirigenti, organizzazione del lavoro, società partecipate, servizi pubblici locali)  la  legge di  riforma della pubblica amministrazione, nota  come “riforma Madia” dal cognome del ministro proponente, è stata bocciata dalla Corte costituzionale. Senza alcun dubbio la nostra pubblica amministrazione ha urgente bisogno di venire riorganizzata e riformata, ma la strada che il governo Renzi aveva scelto per farlo va contro la Costituzione.

E pure contro il buon senso e l’efficienza, aggiungiamo noi: perciò la  sua bocciatura è un’ottima notizia e  anche una bella sorpresa. Sin qui la Corte Costituzionale era stata un baluardo del centralismo, sempre pronta per questo ad  acrobazie giuridiche non di rado ardimentose.  Che  questa volta, in risposta a  un ricorso della Regione Veneto,  abbia invece sancito che con tale riforma lo Stato  entra in ambiti riservati all’autonomia regionale, segna una svolta che il governo era il primo a non aspettarsi. 

In un’intervista apparsa ieri sul Corriere della Sera il ministro Marianna Madia ha parlato costernata di un inatteso  “mutato orientamento” della Corte. “Siamo circondati da una burocrazia opprimente”, è stato invece l’indispettito commento di Renzi, velocissimo come sempre, senza entrare nel merito delle questioni, ad additare chi lo contraddice al vituperio delle genti (per dirla  con le parole di un suo illustre antico concittadino).  

Sarebbe però un errore liquidare la vicenda come uno scontro interno alla classe politica, o come una questione tecnica lontana dagli interessi e dalla capacità di comprensione del comune cittadino.  Alla base di tutto c’è un problema di fondo che non è affatto “tecnico”, e che è poi il medesimo in ballo al referendum del 4 dicembre: se cioè per uscire dall’attuale crisi dello Stato e delle altre istituzioni si debba  puntare sull’autonomia responsabile, insomma sulla sussidiarietà, oppure su una sempre maggiore centralizzazione del potere e del controllo.  Renzi e i suoi hanno puntato  a tutta forza sulla seconda delle due possibili risposte, ossia sulla centralizzazione del potere  e quindi  del controllo.

In democrazia il vero controllo lo fanno gli elettori molto prima degli ispettori e dei pubblici ministeri; purché abbiano modo di farlo. E lo possono fare solo se, nel quadro di un sistema basato sull’autonomia responsabile, le responsabilità di ciascun livello di governo sono chiare e inequivocabili.  La centralizzazione è invece il “marchio di fabbrica”  non solo della riforma costituzionale ma anche di ogni altro provvedimento-chiave del governo, quindi pure della riforma Madia. Tanto per fare un esempio, a norma di tale riforma lo Stato avrebbe potuto interferire nella struttura  interna delle amministrazioni regionali con proprie norme riguardo alle quali alle Regioni era concesso di dare soltanto un parere non vincolante. Inoltre le Regioni sarebbero state  tenute  a scegliere i loro dirigenti entro elenchi  nazionali di aspiranti  redatti a cura del governo centrale.  

A qualcuno potrebbe sembrare che così si metterebbero magari gli ospedali al riparo dal rischio di nomine di incompetenti scelti perché amici della giunta regionale in carica. Nella realtà invece diventerebbe molto più facile il  contrario: la responsabilità politica e morale dell’eventuale nomina dell’”amico” incompetente  non sarebbe più chiara e facilmente individuabile.  La Regione potrebbe trincerarsi dicendo di essere stata condizionata dalle scelte dello Stato e viceversa.

Non c’è dubbio che in Italia ci sono Regioni che funzionano bene e altre che funzionano meno bene, e anche male e malissimo. In termini di popolazione e di capacità economica però le prime non sono affatto un’esigua minoranza. Non dimentichiamo infatti che ad esempio la popolazione della Lombardia è pari a cinque volte quella della Calabria. E che, per fare un altro esempio, la massima parte del passivo della sanità si deve a due sole Regioni, ossia il Lazio e la Campania.  La strada da battere per venirne fuori non è pertanto quella del centralismo, fatalmente inefficace, della riforma Madia, bensì quella appunto dell’autonomia responsabile.

In forza di tale criterio ogni livello di governo locale, Regione o Comune che sia, raccoglie le sue imposte e paga le sue spese.  Con la certezza che quando ha finito i soldi non c’è nessun babbo natale che gliene regala degli altri. Se tale criterio venisse affermato e difeso senza eccezioni  magari ci sarebbe qualche momento di difficoltà,  ma poi anche il comune di Roma finirebbe per  fare invidia a quello di Zurigo.

Ben venga dunque  non solo l’abolizione delle sue varie norme dichiarate incostituzionali, ma anzi il crollo totale della riforma Madia, nonché l’avvio di una nuova riforma della pubblica amministrazione su altre basi.  Una riforma con cui innanzitutto lo Stato, prima di pretendere di fare ordine nelle Regioni e nei Comuni, faccia ordine  in casa sua. 

Quando infatti Renzi e i suoi proclamano grandi riforme, il grande e quasi esclusivo obiettivo del loro zelo riformatore non è mail lo Stato, dove si concentra il grosso dell’inefficienza e degli sprechi, ma sono le autonomie. Tra l’altro non si è avuta sin qui notizia alcuna di un’eventuale riforma di Palazzo Chigi, della Presidenza del Consiglio,  che ha un organico di quasi 2300 dipendenti  più un nugolo di consulenti e di personale comandato da altre amministrazioni, mentre ad esempio i dipendenti  della Casa Bianca,  della Presidenza degli Stari Uniti  sono  circa 150.   Quando Renzi riuscisse, con una riforma a chilometro zero, a ridurre i dipendenti di Palazzo Chigi non diciamo a 150,  ma almeno a non più di 500,  il suo zelo riformatore potrebbe allora diventare  più credibile.