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Santa Caterina da Siena a cura di Ermes Dovico
Ora di dottrina / 109 – La trascrizione

La legge e i suoi effetti – Il testo del video

Le azioni umane, buone o cattive, hanno dei principi interni e dei principi esterni. Tra quelli esterni c’è la legge. La definizione classica di legge: quattro aspetti. Perché una legge iniqua non è una vera legge. Legge e virtù.

Catechismo 24_03_2024

La scorsa volta abbiamo concluso il discorso relativo al peccato. Abbiamo detto che cos’è il peccato, come vi entrino la volontà, l’intelligenza, le passioni. E abbiamo più e più volte ribadito un concetto e cioè che il bene di un’azione umana è dato, sostanzialmente, dall’ordine di ragione. Nell’ultima lezione abbiamo detto che le passioni non sono da considerarsi buone o cattive se non in ordine alla ragione, cioè nella misura in cui sono conformi o difformi a questo ordo rationis.

Il principio, potremmo dire, delle azioni umane si può suddividere in due grandi categorie: 1) i principi interni di un’azione, che noi chiamiamo virtù, un capitolo importantissimo, che tratteremo un po’ più avanti; 2) i principi esterni delle azioni. Entrambi, attenzione, concorrono all’azione ordinata, così come gli stessi principi interni ed esterni possono concorrere all’azione disordinata. Evidentemente, se da un lato abbiamo le virtù, dall’altro abbiamo i vizi. Tra i principi esterni c’è ad esempio l’istigazione demoniaca.

Dunque, l’azione umana è sempre formata, plasmata da due grandi aspetti, uno interno e uno esterno, che non sono in conflitto, che non sono uno a discapito dell’altro, che non sono o l’uno o l’altro, ma sono parti integranti che entrano appunto nell’atto umano.

Tra i principi esterni dell’azione troviamo la legge e la grazia. Della grazia parleremo dopo che avremo introdotto il grande capitolo del Credo – «Credo… in unum Dóminum Iesum Christum» – cioè quando inizieremo a parlare propriamente di Gesù Cristo, della Redenzione.

Oggi, e per qualche altro incontro, vorrei invece soffermarmi sulla questione e il concetto della legge. È doveroso soffermarsi su questo aspetto, perché oggi più che mai dobbiamo recuperare il senso della legge. Infatti, la legge viene talora assolutizzata, qualunque sia il suo contenuto, e talora disprezzata in quanto appunto principio esterno, quasi che l’uomo non debba conformarvisi. Quante volte abbiamo sentito “a casa nostra”, nell’ambito cattolico, che l’uomo non deve conformarsi a una legge, perché ciò non sarebbe commisurato alla sua dignità? Quindi dobbiamo uscire da questo problema e capire che cos’è la legge. E poi vedremo che queste false obiezioni, queste tendenze e deviazioni in qualche modo si sbriciolano.

C’è un ulteriore punto da tenere presente sullo sfondo, specie quando parleremo del trattato di san Tommaso relativo alla legge, cioè: è vero che per molto tempo, nella riflessione filosofica e anche in una certa riflessione teologica, si è molto insistito, in modo quasi unilaterale, sull'obbligazione. Il punto fondamentale è stato l’obbligazione della legge in virtù dell’autorità che la emana. In soldoni, poiché è l’autorità legittima a promulgare una legge, ergo, per questa ragione, la legge deve essere obbedita. Dunque, la condizione obbligante della legge è stata legata principalmente, o anche esclusivamente, all’autorità che la promulga: è una concezione, potremmo dire, volontaristica della legge. Cioè, Tizio vuole, Caio obbedisce: questo è lo schema volontaristico.

A questa impostazione si è reagito con che cosa? Con la ricerca di un pertugio, di un rifugio da questa legge obbligante in virtù dell’autorità di chi la promulga. Sostanzialmente è il principio della libertà della coscienza: la coscienza viene concepita come antagonista della legge concepita in modo volontaristico, nella quale io mi rifugio per trovare uno spazio, potremmo dire, di autonomia, uno spazio nel quale prendo in qualche modo una certa distanza dall’autorità e dalla legge promulgata. Dunque, si capisce che qui c’è una tensione, perché tanto più sono nella logica della legge volontaristica tanto più dovrò cercare una via di fuga nella libertà della coscienza. E quindi tanto più riesco a ritagliare parametri di libertà di coscienza tanto più sarò libero da questa autorità e da questa legge, vista in qualche modo come impositiva. Ora, è un tema enorme, ovviamente. Stiamo facendo un’ora di dottrina, non stiamo facendo un trattato filosofico o teologico de legibus; però il tema è comunque importante e in qualche modo deve essere presentato.

San Tommaso è uno straordinario riferimento che ci permette di riposizionarci, senza dover per forza prendere partito per l’obbligatorietà della legge in virtù dell’autorità o per la libertà di coscienza, perché sono due polarizzazioni che di fatto costituiscono già un’incomprensione del senso e della natura della legge. San Tommaso dedica al tema alcune quæstiones nella I-II della Somma Teologica. Nella prima di esse, la quæstio 90, ci dice qualcosa che è già un tesoro, parlando della definizione della legge, che cos’è dunque essenzialmente la legge. E ci dice che la legge appartiene al principio delle azioni umane: cioè, pur essendo un principio esterno (perché i principi interni sono le virtù), non è tuttavia un principio estraneo, che sopraggiunge a un certo punto, per coartare le azioni dell’uomo; è invece un principio costitutivo dell’azione umana. Perché? Questo è il punto chiave: perché la legge appartiene all’ordine di ragione e noi sappiamo che l’ordine di ragione è misura degli atti umani. È l’ordine di ragione che dice se l’atto umano è buono o non è buono. Dunque, siccome l’ordine di ragione è la misura degli atti umani e la legge appartiene all’ordine di ragione, allora la legge appartiene al principio delle azioni dell’uomo, ne è parte costitutiva. Non è una parte avversa, non è una parte che in qualche modo lede la natura degli atti umani, tutt’altro.

L’obbligazione, allora, c’è. Ma l’obbligazione da che cosa è derivata? Precisamente dal fatto che la legge appartiene all’ordine di ragione. E, potremmo dire, nella misura in cui la legge è legge, cioè appartiene all’ordine di ragione, in questa misura è obbligante. Dunque, non basta che venga promulgata da un’autorità legittima o che si suppone tale, non è sufficiente: la sua forza obbligante nasce in prima battuta dal fatto che appartiene all’ordine di ragione. E quindi in modo derivato, secondario (che non vuol dire non importante, ma che non è primario, è derivato), l’obbligazione è importante perché deriva dall’ordine di ragione.

Nell’art. 2 della quæstio 90, san Tommaso cerca di zoomare un po’ su questa legge. La legge, come abbiamo detto, per essere legge, deve appartenere all’ordine di ragione. Vi chiedo di tenere questo a mente, poi man mano, con il prosieguo delle lezioni, vedrete che il cerchio si chiuderà. Non riusciamo a chiuderlo tutto oggi, ma occorre un po’ di pazienza perché è davvero importante questo discorso.

Dunque, nell’art. 2 san Tommaso ci ricorda che il principio dell’agire umano è il fine ultimo. Perché? Perché l’uomo, come abbiamo già detto altre volte, fa qualcosa per un fine. Ora, questo fine, se appunto è un fine particolare, vuol dire che è ordinato a un altro fine. E qual è, in fondo, quest’altro fine? La felicità. Qualsiasi cosa l’uomo faccia, anche se si tratta di fini intermedi, lo fa perché questi fini sono ritenuti, a torto o a ragione, ordinati alla sua felicità. Ma abbiamo anche detto che l’uomo ha, costitutivamente, per creazione, un unico fine ultimo, ma molti fini intermedi, ordinati tra loro, gerarchici, non tutti uguali. Ha un unico fine ultimo, che è la beatitudine.

Ora, per questo san Tommaso afferma: «La legge deve riguardare soprattutto l’ordine alla beatitudine» (I-II, q. 90, a. 2). Poiché la legge appartiene all’ordine di ragione, la legge deve guardare prima di tutto, costitutivamente, alla beatitudine. La legge che non guarda alla beatitudine dell’uomo non ha più propriamente la natura di legge.

San Tommaso fa un altro passettino, parlando dell’uomo in una comunità perfetta. Che cos’è una comunità perfetta? Non si tratta della perfezione di chi la compone, ma si intende una comunità più ampia della famiglia, come la comunità di uno Stato, dove appunto c’è una comunanza di tutta una serie di fattori. Questa è la “comunità perfetta”, detta “perfetta” appunto non perché sia perfetta in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue persone. San Tommaso argomenta che, poiché l’uomo appartiene a questa comunità perfetta, la legge non può non riguardare l’ordine alla felicità comune. E dunque ogni legge è in rapporto al bene comune, alla beatitudine. Ma questa beatitudine, data la natura socievole e sociale dell’uomo, appartiene e si estende sempre a una comunità. E dunque questa legge deve mirare alla sua costitutività nell’essere in rapporto al bene. E quindi ogni altra legge che disciplina un ambito privato o particolare è legge e ha natura di legge in quanto è in ordine al bene comune, perché sotto questo elemento del bene comune troviamo gli elementi particolareggiati e il bene privato. La proprietà privata, per esempio, non è contraria al bene comune, tutt’altro, è in ordine al bene comune.

È chiaro che, come dice l’art. 3, indirizzare al bene comune non appartiene a chiunque, perché ciascuno di noi indirizza sé stesso al proprio bene, ma ordinare al bene comune non può essere fatto da chiunque. Questa facoltà, dice san Tommaso, appartiene «o a tutto il popolo o a chi ne fa le veci. Perciò fare le leggi spetta o all’intero popolo o alla persona pubblica che ha cura di esso» (I-II, q. 90, a. 3). È importantissimo tenere entrambi i poli. San Tommaso non dice che questa facoltà appartiene né solo a tutto il popolo né solo a chi ne ha responsabilità o, meglio, a chi comanda. Chi ha la responsabilità del bene pubblico non può farlo a prescindere dal popolo, perché sennò che bene comune è? Non si può raggiungere il bene comune sacrificando il bene del popolo, sarebbe un cortocircuito. E dunque san Tommaso dice che questo orientarsi sarà di pertinenza o dell’intero popolo o della persona pubblica, che ha cura di esso. Vedremo tra poco che cosa san Tommaso esige, e perché, da chi è chiamato a ordinare questo bene comune.

Ancora, un aspetto importante della legge è che sia promulgata. Cosa vuol dire promulgata? Vuol dire in sostanza che la legge deve essere conosciuta, perché se la legge è il principio dell’azione umana e noi sappiamo che nell’azione umana entrano l’intelletto e la volontà – volontà che però senza l’intelletto, senza la ragione, è cieca – la ragione deve conoscere la legge, perché altrimenti come fa ad ordinarsi secondo la direzione indicata da questa legge?

Ed ecco che allora abbiamo la definizione finale importantissima che san Tommaso ci dà nell’art. 4, che riassume un po’ quello che abbiamo detto fino adesso, cioè: la lex, la legge, è prima di tutto un ordo rationis, un ordine della ragione: non è un ordine contro la ragione o fuori dalla ragione; ad bonum commune, cioè riguarda il bene comune e abbiamo visto perché; ab eo qui curam communitatis habet, promulgata: cioè promulgata da parte di colui che ha la cura della comunità, che regge la comunità.

Questa è la definizione classica della legge, che include dunque quattro aspetti: l’ordine di ragione, l’ordine al bene comune, il fatto che venga da un’autorità che ha la cura del bene comune e che sia promulgata, conosciuta. Al di fuori di questo, non abbiamo una legge propriamente detta, né la legge civile, né la legge naturale, né la legge divina. Questa definizione entra in tutte le tipologie di leggi che avremo modo di vedere.

A me adesso interessa focalizzare la quæstio 92, una quæstio che ci può  disorientare per come siamo abituati noi a concepire la legge, che si tratti del modo più “fedele” al sistema o invece di derivazione più anarchica. Perciò vediamo quali sono gli effetti della legge.

L’art. 1 della quæstio 92 si chiede se la legge abbia l’effetto di rendere buoni gli uomini. A noi tutto verrebbe in mente tranne il fatto che la legge abbia a che fare con la bontà dell’uomo. E invece per san Tommaso è proprio così: «Poiché la virtù consiste nel rendere buono chi la possiede, ne segue che è un effetto diretto della legge rendere buoni, in senso assoluto o relativo, coloro ai quali essa è imposta. Se infatti il legislatore ha di mira il vero bene, cioè il bene comune regolato secondo la divina giustizia, allora gli uomini con le leggi diventano buoni in senso assoluto» (I-II, q. 92, a.1). Cioè, la legge, che è veramente legge, e segue dunque l’ordine di ragione, è ordinata al bene comune – vedete che qui san Tommaso non parla semplicemente di ordine di ragione ma fa riferimento alla divina giustizia, che è la stessa cosa; allora gli uomini, seguendo la legge, diventano buoni, in senso assoluto.

Vedete dunque che quella narrazione, secondo cui l’uomo non è fatto per seguire la legge, è sbagliata: l’uomo è fatto per seguire la legge vera, la legge buona, la legge che ha le caratteristiche di cui sopra. Se invece, dice san Tommaso, «l’intenzione del legislatore non ha di mira il vero bene, ma il proprio bene utile e dilettevole, contrario alla divina giustizia, allora la legge non rende gli uomini buoni in senso assoluto, ma buoni in senso relativo, cioè buoni per un tale regime» (ibidem). Cosa sta dicendo? Sta dicendo che una legge, per esempio, che ci insegna a rubare, ci rende dei “buoni” ladri. “Buoni”, quindi, in senso relativo; non buoni in senso assoluto, cioè come uomini, non buoni moralmente, ma dei “buoni” ladri, “buoni” assassini, eccetera: buoni in senso relativo, in senso lato.

Nella prima risposta alle obiezioni, san Tommaso dice: «Essendo la legge data per dirigere gli atti umani, nella misura in cui tali atti contribuiscono alla virtù, la legge rende gli uomini buoni» (ibidem, ad. 1). Perché? L’obiezione,a cui Tommaso risponde, era che gli uomini sono buoni grazie alla virtù, non grazie alla legge; vedete la dicotomia: la virtù, non la legge. San Tommaso dice no: la virtù è fondamentale come atto interno; la legge è fondamentale come atto esterno. E la legge dunque, ripetiamo, siccome è «data per dirigere gli atti umani, nella misura in cui tali atti contribuiscono alla virtù, la legge rende gli uomini buoni». Dunque, la legge è al servizio della virtù. Non è antagonista della virtù.

Nella terza obiezione, san Tommaso dice una cosa curiosa e molto importante: «È impossibile che il bene comune di una città possa essere raggiunto se i cittadini non sono virtuosi, almeno quelli a cui spetta governare. Tuttavia per il bene comune è sufficiente che gli altri siano virtuosi almeno fino al punto di obbedire ai loro governanti» (ibidem). Allora qui san Tommaso ha un’idea del governo, dell’autorità che presiede alla vita politica – nel senso della vita comune degli uomini – molto diversa da quella che abbiamo noi, da quella che ci viene propinata. Cioè, san Tommaso dice che chi è deputato alla cura del bene comune, quindi della comunità, non basta che abbia delle abilità, che pure sono fondamentali, ma è altresì necessario che sia virtuoso. E dunque più questa autorità è svolta dal popolo e più il popolo deve essere virtuoso; più è svolta da poche persone e più queste poche persone devono essere virtuose; ed è sufficiente che il popolo sia virtuoso almeno nell’obbedire, presupposto che queste persone, che sono virtuose, dirigano verso il bene comune.

Dunque, per san Tommaso il problema non è la procedura o l’estensione più o meno ristretta di chi esercita l’autorità, ma il fatto che chi la esercita, tanti o pochi, debba essere virtuoso. Per quale ragione? Potremmo obiettare: se uno fa bene il suo mestiere, perché deve essere virtuoso? Perché, a differenza di altre pur nobili professioni, come ad esempio il falegname, chi regge la comunità politica deve essere prudente, avere quella prudenza particolare che porta la comunità verso il bene comune.

Ora, tra tutte le virtù, connesse tra loro, la prudenza in particolare è quasi un vertice: la prudenza “siede” su una serie di virtù, è la parte della ragion pratica. Ricordiamo l’immagine dell’auriga con i cavalli: l’auriga è la parte della ragione, in questo caso la ragion pratica; se i cavalli non li ha mai dominati, non riesce né a cogliere né a dirigere verso il bene comune. Dunque, in ragione di quella virtù che chi regge la comunità deve avere, ossia la prudenza e in particolare la prudenza politica, è necessario che queste persone siano virtuose. E dunque il modello di ampia partecipazione politica funziona se c’è un’ampia partecipazione virtuosa, di virtù vissuta. Una più ristretta condivisione dell’autorità, invece, funziona ugualmente a patto che queste persone siano virtuose. Questo per san Tommaso è un punto fermo, in ragione della connessione delle virtù tra loro.

Nella risposta all’ultima obiezione della quæstio 92, san Tommaso scrive: «Una legge tirannica, essendo difforme dalla ragione, non è una legge in senso assoluto, ma è piuttosto una perversione della legge» (ibidem). Vedete come per san Tommaso questo punto è chiaro: non basta che ci sia un’autorità che promulghi; è necessario altresì che la legge sia legge, dunque la legge non può essere difforme dalla ragione, altrimenti la legge è tirannica. E allora, di fronte a una legge difforme dall’ordine di ragione, il discorso non è la libertà di coscienza: non fraintendetemi, è chiaro che nei contesti concreti diventa importante percorrere anche una certa strada. Ma il discorso è un altro: non che io rivendichi per me una nicchia, ma che mi opponga al fatto che quella è una legge iniqua, tirannica, cioè non è una legge, secondo la definizione che ha dato san Tommaso. È importante. Poi, ripeto, da un punto di vista concreto, questo significa difendere, per esempio, l’obiezione di coscienza, e va benissimo. Però non dobbiamo mai perdere di vista  questa prospettiva: non è che noi ci prendiamo una nicchia per difenderci da qualcosa, il punto è che una legge iniqua non è una legge, anche se è stata promulgata, approvata con tutti i crismi; anzi, dice san Tommaso, è «una perversione della legge».

L’art. 2 conclude il discorso dicendo quali sono gli atti della legge. Anche questo è molto importante. La legge fa quattro cose, secondo san Tommaso. La prima: ordina o comanda. Ma ordina o comanda che cosa? Ordina o comanda gli atti virtuosi. La legittimità di comandare e ordinare dipende dal fatto che l’atto ordinato è un atto virtuoso. Secondo: una legge non solo comanda, ma anche proibisce. E che cosa proibisce? Gli atti peccaminosi, gli atti viziosi, dice san Tommaso. Terzo: la legge permette, può permettere alcune cose. E che cosa permette? Gli atti indifferenti, nella loro specie. Quarto: la legge punisce: «L’elemento poi su cui la legge fa forza per essere obbedita è il timore della pena: e in rapporto a questo aspetto si dice che la legge punisce» (I-II, q. 92, a. 2).

Allora, la legge ordina ciò che è virtuoso: non ordina tutto ciò che è virtuoso, ma ciò che ordina deve essere virtuoso. La legge proibisce: proibisce le cose disordinate, fuori dall’ordine di ragione; non proibisce tutto ciò che è disordinato, perché a volte questa proibizione, se colpisse tutti gli atti peccaminosi, finirebbe anche per ledere altri aspetti del bene comune. Dunque, qui bisogna commisurare la proibizione degli atti più gravi e la tolleranza di quelli meno gravi. La legge permette ciò che è indifferente, lascia la libertà. Se la legge invece entra in modo troppo determinato su ciò che è indifferente rende la vita impossibile ed è qualcosa che sperimentiamo più o meno tutti. E poi la legge punisce: e questa è la forza in qualche modo della legge.

Nella risposta alla quarta obiezione dell’art. 2, san Tommaso ci dice molto realisticamente, molto pedagogicamente: «Per il fatto che uno comincia ad abituarsi, per paura del castigo, ad evitare il male e a compiere il bene, è portato presto o tardi ad agire così con piacere e di propria volontà. E in questo modo la legge, anche punendo, coopera a rendere buoni i sudditi» (ibidem). San Tommaso dice: attenzione, è chiaro che la bontà di un atto è la virtù, cioè volere il bene, non semplicemente temere il male, temere la punizione. La bontà è la volontà che si dirige, che vuole il bene. E tuttavia siamo a un livello tale per cui in realtà uno incomincia a fare il bene, per “timore di”, e, assaggiando in qualche modo questo bene, presto o tardi arriva a farlo con piacere, di propria volontà e quindi l’atto diventa veramente buono. E quindi la legge, punendo, pone delle premesse (non raggiunge, da sé, il fine) perché la persona poi si volga verso il bene e lo voglia.

La prossima volta entreremo un po’ più nelle specificazioni della legge, quali tipi di legge. E poi proseguiremo su questo tema, sperando che se ne colga l’importanza, la decisività nel contesto in cui viviamo oggi, sia nel contesto sociopolitico che nel contesto ecclesiale, dove in nome della legge si fa di tutto oppure si disprezza la legge. Si dice che non si deve agire in nome della legge, non comprendendo in realtà che cos’è la legge, nel senso vero e pieno del termine.

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Per la Pasqua, domenica prossima, sospenderemo l’Ora di dottrina e ripartiremo per l’Ottava, la Domenica in Albis.



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