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IL LIBRO

La libertà creatrice di Dio, fondamento della vera libertà

Diversamente dall’idea sottesa al principio di autodeterminazione, la vera libertà necessita di un perimetro e di confini. Bisogna dunque riconciliarsi con la propria finitudine, riconoscendo che la vita e la libertà vengono da Dio. Questo il filo conduttore del libro “Un’altra libertà. Contro i nuovi profeti del paradiso in terra”, nato da un dialogo tra il senatore Quagliariello e il cardinale Ruini.

Cultura 11_03_2020

“Volendo mettere la libertà dove non è, la si distrugge dove Dio l’ha messa. L’uomo che non accetta di essere relativamente libero sarà assolutamente schiavo”. Questa citazione del “filosofo contadino” Gustave Thibon sintetizza mirabilmente la concezione della libertà espressa dal cardinale Camillo Ruini nel suo recente dialogo col senatore Gaetano Quagliariello, appena pubblicato in Un’altra libertà. Contro i nuovi profeti del paradiso in terra (Rubbettino, 2020, pp. 136).

Un libro sulla vera libertà, quella che necessita di un perimetro e di confini, dal momento che “in una società in cui il diritto naturale viene sempre più messo in discussione - come si legge nella prefazione - difendere la persona e la sua autentica libertà diventa un imperativo categorico per chiunque abbia a cuore le sorti dell’Occidente e della stessa umanità”.

Attualmente si assiste infatti alla “tendenza a evadere da noi stessi e dalla realtà” e la libertà è intesa “quale criterio assoluto delle nostre scelte, pretesa sbagliata perché la nostra vita e la nostra libertà vengono da Dio, sono legate a Lui e in ultima analisi dipendono da Lui”, sottolinea Ruini. E in effetti, relativamente ai temi etici, a farla da padrone oggi nei dibattiti televisivi e sulle pagine dei quotidiani è il principio di autodeterminazione che, come rileva Quagliariello, considera “l’individuo a prescindere dagli altri e persino dal dato di realtà di se stesso”, come un “tutto interessato unicamente alla sua affermazione”, mentre ai suoi antipodi si colloca il concetto di persona figlio della cultura e tradizione cristiana, che intende l’uomo come “un tutto che si rapporta a un altro tutto per cui il corpo sociale non lo sovrasta e non ne cancella l’autonomia”.

Di qui, relativamente al progresso delle tecnoscienze, il senatore Quagliariello rileva con preoccupazione come esso “non sia inteso come conoscenza e applicazione al servizio dell’uomo, ma quale pretesa di superare l’umano per giungere al post-umano”. Per non assecondare tale delirio d’onnipotenza dei nuovi profeti del paradiso in terra, il cardinale Ruini addita una strada, “riconciliarsi con la propria finitudine”, un rimedio umile e particolarmente attuale anche per i tempi di psicosi da Covid-19 che stiamo vivendo.

Allo stesso modo, sui temi della nascita, della genitorialità e dell’eutanasia, per arginare la “via giudiziaria alla creazione dell’uomo nuovo che cerca scorciatoie e percorsi giudiziali obliqui senza bisogno di sporcarsi le mani” è opportuno, secondo il senatore, “tornare a chiamare le cose col proprio nome” in ossequio alla propria ragione. E così, senza mezzi termini, il cardinale ricorda le parole dell’Evangelium vitae di san Giovanni Paolo II sull’aborto, definito quale “uccisione volontaria di un essere umano innocente sempre gravemente immorale”.

Riguardo all’eutanasia, se da un lato Ruini sottolinea il fatto che la vita terrena sia una realtà ‘penultima’ e non ‘ultima’, per cui vi “si può rinunciare per salvare e proteggere i nostri fratelli in umanità” o magari per affrontare il martirio; dall’altro “tutto questo non implica affatto una subordinazione della vita e del suo valore alla nostra libertà: in concreto non comporta che avremmo diritto di rinunciare alla vita semplicemente perché non ci piace più”, perché “la libertà non può essere sganciata dalla realtà del nostro essere; se va contro di questa va contro se stessa e quindi si autodistrugge”. Ancora sul tema, relativamente alla mutata considerazione dei sostegni vitali in terapie, Quagliariello rileva che “nessuno è mai riuscito a spiegare quali siano le malattie che vengono curate con acqua e cibo”. Inoltre nelle cosiddette disposizioni anticipate di trattamento egli ravvisa il pericolo “di una libertà assoluta dell’individuo-monade, che finisce col negare quella degli altri, rendendo il medico un mero esecutore della propria volontà”. Così, dietro “la gelida asetticità dei protocolli sanitari e privando i medici della libertà di tener fede al proprio giuramento”, si è tolta la vita a Charlie Gard e ad Alfie Evans, in barba anche al volere dei genitori di continuare a prendersene cura. Eppure, per risvegliare la ragione dagli effetti devastanti del suo sonno, basterebbe considerare che “la stessa evoluzione dei diritti dell’uomo dalla Dichiarazione Universale fino alle ultime dichiarazioni promulgate da organizzazioni sovranazionali”, nei termini del positivismo giuridico, non si comprenderebbe pienamente “senza considerare il grado di universalità del precetto della sacralità della vita”, che è alla base del diritto naturale.

Proprio in tali “prese di posizione definitive e non riformabili” risiede, secondo il porporato, la grande attualità dell’Evangelium vitae, nella misura in cui pone la cultura occidentale dinanzi a un bivio: “o la strada di un post-umanesimo che in realtà è un integrale naturalismo, dove l’‘eccezione umana’ cessa di esistere”, o la possibilità di “trarre dalle radici sia cristiane che ‘laiche’ del proprio umanesimo la linfa per un suo nuovo sviluppo e una sua nuova pienezza, dove la centralità dell’uomo non sia alternativa al valore della natura e alla centralità di Dio”, perché è “nella libertà creatrice di Dio” che affonda le proprie radici la possibilità di un’autentica e vera libertà per l’uomo.

Nel solco di tale consapevolezza deve radicarsi anche l’impegno politico dei cattolici, chiamati a “non tacere sulle cose concrete della vita” per non “rendere il Vangelo insignificante”. Insomma, relativamente ai principi non negoziabili, che si tratti dei temi di bioetica o del transumanesimo propugnato dall’ideologia gender, “la fede deve tradursi in cultura – conclude il porporato –, in capacità di valutazione e di giudizio. Quando è in gioco la verità sull’uomo, la Chiesa può e deve parlare”; “se tacesse su questi temi, non farebbe invero molto onore né a se stessa, né all’Italia” (Benedetto XVI). D’altra parte, per dirla anche con san Giovanni Paolo II, “non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano”. Parole allora profetiche, oggi ancora profondamente attuali.