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LA RIFLESSIONE

La memoria di quel giorno in cui siamo stati attratti

Sarah e Burke nel tenero ricordo di quell’attimo preciso e dettagliato in cui la Presenza si è fatta Incontro per me e solo per me. Il sacro parla, ha una forza sua. Non è formalismo, è sostanza, accipicchia se lo è. In una parola: attrae. Anche alle 8 di sera durante una messa feriale ormai conclusa, quando all'improvviso il mistero irrompe plasticamente...

Ecclesia 14_11_2019
The Passion

Caro direttore
Parto dal tuo finale di ieri l'altro. “Ciò che vogliamo vedere nei sacerdoti è la loro disponibilità a vedere Cristo”. E’ questo in effetti che attrae e il cardinal Sarah, nella sua due giorni milanese ce lo ha spiegato molto bene. Mi è rimasta impressa una frase che ci ha detto a pranzo, dopo aver raccontato di come lo colpiva l’inginocchiarsi di San Giovanni Paolo II. «Un sacerdote che ama l’Eucarestia si vede da come celebra messa e i fedeli lo vedono». 

Questo è stato vero per i cardinali Sarah e Burke che lo hanno spiegato teneramente attraverso un ricordo personale. Che poi è il ricordo di quell’attimo in cui la Presenza si è fatta Incontro per me e solo per me. E quindi non è più semplice ricordo, ma si fa quasi memoria. Utilizzo questa parola sacra, memoria e questo stile colloquiale, la lettera, perché qua si entra nel personale e dico che il ricordo che si fa memoria di Sarah e Burke relativamente al giorno in cui si è acquisita questa certezza di una Presenza, andrebbe coltivato e festeggiato in ognuno di noi, come fosse la data del compleanno o dell’anniversario di nozze. 

E’ un’esperienza capitata anche agli apostoli, Andrea e Simone ricordano persino l’orario: le quattro del pomeriggio. Che cosa accadrebbe se tutti ci fermassimo a pensare un attimo a quando – il giorno? L’ora? Il contesto? – l’irruzione del divino scatenò in noi quel cambio decisivo e meraviglioso di una conversione ad una nuova vita di fede?

Ho preso alla lettera l’invito di Sarah e Burke e ho fatto anche io questa operazione di memoria. Per la verità la coltivavo da tempo nel recondito della mia coscienza, ma sentire due cardinali parlare così apertamente di un fatto così personale mi spinge a vincere le normali ritrosie invitando ognuno dei nostri lettori a fare “l’esercizio”. 

Io avevo 19 anni e mi stavo chiedendo tante cose sulla vita. La fede? Incerta, fragile, abitudinaria e poco altro. Ma il richiamo della Messa feriale mi affascinava inconsciamente perché durante la settimana le messe sono più tranquille, c’è più silenzio, c’è meno gente da salutare e gli occhi sono più fissi sul mistero.

Guardavo celebrare il mio anziano parroco don Giancarlo, che il 14 settembre 1977, battezzandomi, mi fece entrare nella famiglia dei cristiani. Un giorno passai dal guardare al contemplare. Fu quando mi capitò di servirgli messa. Mi ritrovai subito dopo la comunione di fronte al calice proprio nel momento della purificazione, quel rituale oggi così banalizzato, scontato e frettoloso tanto da sembrare né più né meno che una semplice asciugata di bicchiere prima di essere riposto nella credenza. 

Dopo avergli versato l’acqua rimanente dell’ampolla lo ascoltavo pronunciare sottovoce una formula latina per me incomprensible. Un filo di voce, ma solenne, in grado di catturarmi. E, dopo aver bevuto, iniziare ad asciugare il calice con un lino bianchissimo. Guardavo la sua cura nel toccare ogni centimetro di quel recipiente d’oro. Lento, senza fretta, quasi lo accarezzava, come quando si deterge con cura una ferita per raccogliere tutte le gocce di sangue. 

Erano le 8 di sera ed era maggio. Il sole era entrato in chiesa dalla porta d’ingresso, aperta sui campi e orientata perfettamente ad ovest rispetto all’altare. Fu in quel momento che vidi il calice rifulgere d’oro e la mano di don Giancarlo farsi ancor più solenne nel purificare quel vaso. Continuavo a guardarlo stupito e ricordo perfettamente che mi chiesi: “Ma che fa? Ma allora ci crede!”. Bastarono queste poche parole per attirarmi magneticamente. In quella cura scoprii il sacro e nel sacro scoprii l’Eucarestia. E da lì iniziò il mio – direbbe Max Pezzali – secondo tempo: la liturgia, la centralità dell’Eucarestia nella mia vita.

Molti anni dopo rividi quella scena per me scatenante. Non a Messa, ma al cinema. La stessa identica scena: quando, dopo la Flagellazione, la Madonna chiede alla moglie di Pilato dei teli e inizia a raccogliere il sangue versato da Nostro Signore sul litostroto del palazzo di Pilato: lenta, solenne, ieratica, attenta che non si perdesse neanche una goccia, perché lì c’era la Salvezza. Ecco, quando rivedo The Passion di Mel Gibson faccio memoria di quell’evento per me decisivo che fu per me attrazione verso il Mistero.

Dunque è vero quanto dice Sarah: il sacro parla, trasmette, ha una forza sua, indipendente dalle nostre volontà umane. Comunica. Perché è Dio che parla. E’ liturgia. Non è formalismo, è sostanza, accipicchia se è sostanza!

Non è un caso – e il Prefetto lo ha notato nel suo discorso di sabato – che i primi araldi della Risurrezione siano proprio due discepoli che a Emmaus riconobbero Gesù non da una foto segnaletica o da un discorso infiammante, ma da un atto liturgico: lo spezzare il pane. E’ nel culto che Gesù si mostra e porta a compimento l’ardere del cuore delle Scritture appena ascoltate. Ed è per questo che chi abusa della liturgia come di un qualche cosa di suo per far parlare se stesso, non riesce a trasmettere nient’altro che la propria insufficiente miseria.