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IMMAGINI CHOC

La morte in scena nella guerra sporca

L'immagine del corpo di Amri appena ucciso fa da contraltare a quella dell'ambasciatore russo. Episodi gemelli che si contendono l'attenzione mediatica. Perché nella guerra sporca abbiamo fatto entrare la morte. Ciò che i tragici greci non avevano mai avuto il coraggio di fare. Abbiamo rinunciato alla mediazione tra orrore e razionalità. 

Editoriali 27_12_2016
L'uccisione dell'ambasciatore russo

Il Tempo è sarcastico. Titola: Regalo di Natale; La Verità va dritta al cuore: Uno di meno; non è da meno Libero che la presenta con un esaustivo: Italia 1 Germania 0; infine il Giornale: Una bestia in meno grazie alla Polizia. La fantasia di alcuni quotidiani italiani, quelli comunemente considerati più “conservatori”, è una spia della pancia del Paese. Che Anis Amri non meritasse grandi onori è assodato. Ma tutti questi giornali non hanno avuto alcuna remora, nell’accompagnare il titolo, dall’esporre la foto del cadavere di Amri appena freddato dagli agenti di Polizia nel piazzale della stazione di Sesto San Giovanni. Una foto choc, si dice in gergo. Di quelle che di solito vengono accompagnate da fascette per oscurare il volto. Immagini forti, per stomaci forti.

Anche alcuni siti di informazione hanno scelto di pubblicare la foto del corpo appena spirato di Amri corredandola dalla sigletta che di solito eravamo soliti vedere nei film: questa immagine non è adatta ai bambini o a chi è facilmente impressionabile. Solo che ora accade per le notizie. Era stato così anche per tutti i siti, da Repubblica al Corriere che avevano mandato in onda non più tardi di una settimana fa il video terribile che mostra Mevlut Mert Altintas mentre spara in diretta a Andrej Karlov, ambasciatore russo a Instanbul. Anche in quel caso le solite raccomandazioni. Puntualmente bypassate da una marea montante di clic.

Perché dobbiamo ormai vedere la morte in faccia? Non è un segno anche questo di una guerra sporca che stiamo combattendo in maniera asimmetrica e diacronica? Inutile dire che la foto del cadavere a terra di Karlov appena crivellato da una sventagliata di proiettili ha fatto il giro del mondo tanto che ancor oggi è una delle foto più viste sui media.

In altri tempi ci sarebbe stato dibattitto sull’opportunità di pubblicare immagini di questo tenore. Ma ormai sembra non esserci più spazio per queste pruderie. Non adesso, che siamo in guerra, risponderebbe un qualunque direttore di giornale. Perché siamo in guerra. La foto del cadavere di Mussolini appeso in Piazzale Loreto fa ancora rabbrividire anche quella zona grigia di italiani che non erano fascisti prima e non furono comunisti poi. Succede sempre così quando si è in guerra o quando certe immagini devo servire a costruire un messaggio forte. Si pubblicano foto raccapriccianti per smuovere il sentimento di una nazione.Non necessariamente per fare clic o “cassa”, probabilmente perché il livello di attenzione verso la persona umana si è abbassato drasticamente, tanto che non ci si chiede nemmeno più se la sua dignità sia violata o no, nel mostrarlo così penosamente caduto a terra. Il direttore in questione potrebbe rispondere che anche la dignità dei morti di Berlino è stata violata, in quanto all’ambasciatore russo, bè, mostrare la foto del cadavere è un preciso dovere di cronaca, dato che siamo in guerra.

Si prosegue così. Con il ministro degli Interni Minniti che si rallegra per la morte di una persona. Si può gioire per la morte di una persona? Certo, era un terrorista, quindi si può tirare un sospiro di sollievo. Ma se vogliamo dare un senso alla parola gioia che senso ha tirarla in ballo per la morte di una persona? Ecco perché abbiamo bisogno di queste immagini: per esorcizzare le nostre paure, anche se, dato che l’immagine oggi è tutto, non abbiamo visto l’immagine di Amri scendere dal Tir e darsi alla fuga. No, quell’immagine non l’abbiamo vista e non abbiamo visto nemmeno dove e come i suoi documenti erano posizionati nel camion della morte. Ma ci fidiamo, non è vero? Però per essere sicuri che certi messaggi siano ben compresi abbiamo bisogno della prova regina: così dobbiamo vedere il cadavere ancora caldo, per placare la nostra paura, i nostri fantasmi. Per confermarci a noi stessi che non cambierà nulla, che questa in fondo è una guerra che si sta combattendo sui giornali, sulle reazioni a caldo, non nelle nostre case.

E pazienza se per farlo dobbiamo fare violenza a quei corpi "nudi" sui quali dovrebbe avere l’ultima parola la pietà. C’è un aspetto quasi barbaro, quasi bestiale in questo bisogno di mostrare la morte. Come siamo distanti dalla profondità di pensiero degli antichi greci, che la morte la maneggiavano come noi nelle guerre e nelle sventure umane, ma sapevano come muoversi di fronte al confine estremo della sua manifestazione. La morte costituisce una componente essenziale della tragedia greca, però ai poeti tragici non interessava l’atto materiale del morire, ma i suoi risvolti emozionali e razionali. Infatti la morte non entrava mai in scena, i personaggi venivano fatti morire sempre nello spazio retroscenico o extrascenico, lontano dalla vista degli spettatori e la loro scomparsa era comunicata al pubblico per mezzo della narrazione di un messaggero o di un araldo. Questo non significa che il cadavere non entrasse in scena, anzi, questo accadeva di sovente, ma era il cadavere che entrava in scena per il pianto o per la preparazione del rito funebre. Era dunque un ingresso che accadeva dopo l’annuncio della morte, e che aveva funzioni funebri, di lamento, in una situazione che cristallizzasse l’ineluttabilità del morire. Il cadavere in fondo era un personaggio.

Qui invece abbiamo la morte stessa che entra in scena, ciò che Eschilo o Sofocle non avrebbero mai osato. Perché consapevoli di un confine preciso tra la narrazione e la vita. Ma l’uomo greco poteva confidare nella catarsi, che non è tanto da intendere come purificazione astratta, quanto come rasserenamento operato dall’azione scenica. Non per rimuovere i sentimenti, ma per temperarli, per garantire alla rappresentazione artistica quei frutti emotivi in perfetto equilibrio tra sensibilità e razionalità.

Con quelle immagini di uccisioni e di corpi a terra senza alcuna pietà e senza alcun filtro abbiamo deciso di non tenere per noi stessi nessuna mediazione tra l’orrore e la razionalità. Nessun compromesso tra la nostra emotività e l’oggettività di una vita umana. Siamo esposti di fronte allo schermo esattamente come un bambino al quale viene lasciato in mano un telecomando in fascia non protetta. E viviamo solo di emozioni, che il più delle volte vengono caricate a pallettoni da altri, per altri interessi e con un timing che non decidiamo.