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ELEZIONI USA

La nomination a Trump, così i Repubblicani si salveranno

Il 3 maggio il tour delle primarie presidenziali statunitensi è arrivato in Indiana e per entrambi i partiti è stato un voto decisivo. E il  Partito Repubblicano è stato costretto dai risultati a cambiare strategia politica e a consegnare la nomination a Trump. Con lo scopo evidente di  lasciare che si elimini da sé e salvare la faccia. 

Esteri 05_05_2016
Donald Trump

Il successo inaspettato di Bernie Sanders (52,7%) su Hillary Clinton (47,3%) conferma che se il “sandersismo” non riesce (ancora?) a scalfire il mainstream Democratico, certo non è un fenomeno passeggero. L’8 novembre gli Stati Uniti eleggeranno il 45° presidente federale e al contempo rinnoveranno la Camera e un terzo dei senatori; il “sandersismo” potrebbe tornare a pesare lì, al Congresso, mettendo in imbarazzo la Casa Bianca qualora il presidente fosse Hillary e i Democratici conquistassero la maggioranza in una o entrambe le Camere, ma soprattutto determinando lo spostamento a sinistra del partito (e del “Paese legale”) e magari pure l’inizio della fine del clintonismo.

Sull’altro versante, invece, la vittoria netta di Donald J. Trump (53,3%) ha di fatto messo la parola fine alla sfida per la nomination Repubblicana. Trump ha conquistato tutti i 57 delegati in palio in Indiana per effetto della legge elettorale maggioritaria ivi vigente, che però è un’arma a doppio taglio. Alla vigilia avrebbe potuto permettere la stoccata finale del fronte anti-Trump, impedendo al milionario prestato alla politica di ottenere il quorum di delegati necessari per la nomination anche solo conquistando un voto popolare in più in alcuni Stati chiave di quelli che ancora non hanno votato, i più dei quali regolati da leggi maggioritarie. 

Ma questa stessa forza, cioè ottenere un successo enorme con un vantaggio anche minimo, si è trasformato in una débâcle quando a sfruttarla è stato Trump. Ted Cruz (36,7%) ha perso l’Indiana soprattutto perché Trump, a lungo inchiodato a se stesso con grosso modo un terzo dell’elettorato che nelle primarie ha scelto di votare Repubblicano, ha ultimamente aumentato i consensi: perché diversi in più lo votano in quanto “eleggibile” e diversi perché convinti del suo messaggio (e spesso non sono lo stesso popolo). Il messaggio di Trump, infatti, è simile quando non identico a quello conservatore, e comunque appetibile a quel palato; siccome è siccome formulato da un outsider, piace anche a chi non crede più nel conservatorismo classico del Grand Old Party (Gop, l’altro nome del Partito Repubblicano). 

Chi invece lo ritiene troppo fanfarone, si divide tra chi non lo voterà mai e chi (una volta usciti di scena altri nomi più graditi) lo vota come “male minore”. Fatto sta che Trump ha la nomination in tasca. Matematicamente ancora no, poiché in teoria, se perdesse tutte ma proprie tutte le prossime elezioni, resterebbe a corto di delegati, ma in pratica sì perché il suo rivale principale, Cruz, si è ritirato dopo la sconfitta dell’Indiana. Si ritira anche John Kasich (7,5%), utile fin qui a sottrarre delegati a Trump. Dunque Trump sfiderà Hillary l’8 novembre venturo, il che paradossalmente sposta l’attenzione da lui per concentrala sul Gop per via della virata drastica di strategia emblematizzata dal ritiro di Cruz.

Fino alla vigilia del voto in Indiana, Cruz era ancora la punta del fronte anti-Trump, cioè del Gop nel suo complesso. Pur senz’accordarsi, lui e Kasich esistevano per fermare Trump, ma così si avvicinava il baratro della cosiddetta “Convenzione aperta”, quella che si verifica quando nessun candidato ha la maggioranza dei delegati utili e quindi si aprono le contrattazioni che di fatto annullano il voto popolare. Questo avrebbe però spaccato il partito, distrutto la sua credibilità, inviperito un numero enorme di elettori Repubblicani, fatto gridare l’entourage di Trump al tradimento e sottratto al Gop un numero strategico di elettori l’8 novembre. Troppo. Per questo il partito ha cambiato politica e consegnato la nomination a Trump: per lasciare che si elimini da sé e salvare la faccia

Se, infatti, Trump soccomberà alla Clinton, il Gop ne uscirà pulito con la possibilità di rifarsi. Bloccandolo invece alla Convenzione, il partito ne sarebbe morto. Il rischio è alto, ma davanti allo schiacciasassi Trump il Gop non può che correrlo. La Clinton, infatti, può sconfiggerlo. Non è sempre forte, ma è immensamente potente. Al confronto Trump è un parvenu privo di record politici, battibilissimo se gli spin-doctor di Hillary sapranno sfruttare le molte falle del tycoon (non minori di quelle della stessa Clinton, ma il make up dell’ex first lady tiene meglio) e all’occasione fare il rovescio di quanto fanno le arti marziali: trasformare in debolezza la forza dell’avversario, per esempio spuntarne le rodomontate con il bombing love del “politicamente corretto”. 

La Clinton sa come fare e come riuscirci; se le truppe del “sandersismo” dovessero anche solo per una volta venirle in aiuto per fermare “il capitalista”, per i Democratici potrebbe anche essere una passeggiata. Un calcolo che rasenta il cinismo, ma oggi è l’unica chance del Gop di salvare la pelle, esorcizzando lo spettro del “trumpismo”. Se Trump avesse la possibilità di vestire i panni del martire, la fine del Gop sarebbe infatti sicura; se invece Trump perdesse il confronto con Hillary, per il partito si aprirebbero i tempi supplementari, forse persino i calci di rigore. Il Gop deve rimboccarsi le maniche e fare i conti con la deviazione populista del conservatorismo, che negli Stati Uniti non è una novità ma che quest’anno ha dimostrato di non essere più solo un’eccentricità.

Alla vigilia dell’uragano Trump il Gop era un buon partito conservatore, migliore di come fosse solo pochi anni fa, granitico contro l’aborto, qua e là acciaccato sulla questione gender ma nel complesso solido. Il “trumpismo” sta provando a stroncargli la carriera, facendo del conservatorismo la caricatura che i suoi nemici prediligono. Forse per il Gop l’allarme Trump può essere una buona sveglia. Resta il rammarico di avere (per ora?) perso due personaggi notevoli, il protestante Cruz e il cattolico Marco Rubio, eredi della parte migliore del movimento dei “Tea Party” (la cui tentazione populista era stata sinora tenuta debitamente al guinzaglio) e del meglio del Gop.