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ANGLOFILIA

La nostra lingua sia una risorsa

L'imparaticcio dell'inglese e l'anglicizzazione delle parole italiane, non fanno bene a noi e non servono neppure a imparare bene la lingua parlata in gran parte del mondo. In un mondo che torna al pluri-linguismo è bene sapere al meglio il proprio idioma e le lingue dei popoli più prossimi.

Editoriali 31_12_2016
Inglese approssimativo sui segnali stradali

Tra i buoni propositi per l’anno che viene, la tutela del primato della lingua e anche delle parlate materne dovrebbe con ottime ragioni stare ai primi posti. Diversamente da quanto troppo sovente si pensa, il dilagante insegnamento precoce dell’inglese è infatti un pessimo biglietto d’ingresso nel mondo globalizzato in cui viviamo. E l’alluvione di anglicismi inutili nell’italiano parlato non è di aiuto alcuno a una buona conoscenza dell’inglese, pur di certo necessario ma altrettanto di certo non sufficiente per muoversi a proprio agio nel contesto plurilingue cui si sta tornando. Beninteso, si sta tornando, e non giungendo per la prima volta: fino all’affermarsi dello Stato moderno e delle scuole statali il plurilinguismo era infatti la regola.

Mi rendo conto che quanto ho appena detto si scontra frontalmente con le buone intenzioni di tante famiglie, soprattutto del ceto medio, che chiedono sezioni bilingui italiano-inglese, in particolare alle scuole paritarie che le possono offrire, essendo così convinte di fare il bene dei loro figli. E altrettanto frontalmente si scontra con le direzioni di queste scuole che o non si rendono conto dell’errore o disperano di convincere le famiglie dei loro allievi a fare una scelta diversa e migliore. 

Non di meno, proprio perché viviamo in un mondo sempre più multilingue e multiculturale, un pastone fatto da una parte da un italiano inquinato dall’inglese e dall’altra da un inglese ridotto a “lingua franca” elementare e irrigidita non serve a nulla. O meglio serve soltanto a ridurre i nostri figli e nipoti al mesto ruolo di consumatori e di rivenditori passivi di prodotti e di messaggi “omogeneizzati”, scelti per loro da centri transnazionali di potere ai quali interessano solo in quanto consumatori docili, stabili e costanti. Per avere un’idea plastica, immediata e senza dubbio di buona qualità tecnica di questa visione del mondo basta seguire un po’ della programmazione di Sky Tv, provincia italiana della News Corporation, l’impero mediatico dell’australiano-americano Rupert Murdoch, le cui reti televisive raggiungono ogni giorno circa 4,7 miliardi di persone, ossia tre quarti della popolazione del globo. Nella prospettiva che si diceva tutti i prodotti di Sky Tv - una costosa rete a pagamento, specificamente rivolta a un pubblico di reddito medio-alto - hanno nomi e titoli in inglese, e vagamente anglicizzato è tutto il contesto complessivo dei programmi. Persino le telecronache del campionato di calcio italiano di serie B diventano “Serie B Day”. Il segnale che i suoi abbonati ricevono forte e chiaro è più o meno il seguente: “L’italiano è un dialetto che benevolmente usiamo per parlare con voi che non sapete l’inglese, ma è il mondo e il futuro parlano inglese. Tenetene conto e fate il possibile perché i vostri figli non si debbano trovare linguisticamente handicappati come voi”. 

Di fronte a questa potente campagna, di cui Sky Tv è peraltro soltanto uno dei tanti megafoni, non sorprende il boom delle scuole bilingui e dell’inglese dappertutto: dal Politecnico di Milano ai teloni dei camion passando per le insegne dei bar e delle lavanderie. Questo però non esime i più avvertiti dal dovere di contrastare questa tendenza spiegando con pazienza quanto sia controproducente. Se è vero come è vero che nel mondo in cui viviamo occorre tornare ad essere plurilingui, è necessario in primo luogo avere una completa padronanza della propria lingua materna, e anche del dialetto del luogo laddove è ancora vivo; e poi parlare diverse lingue straniere, almeno due o tre, non una sola. Siccome però l’apprendimento di una lingua è un’esperienza, una relazione, e non soltanto né primariamente una pratica scolastica, è da una lingua dei vicini che si deve cominciare. Non dall’inglese, che in tutto il continente europeo è di uso pubblico e ufficiale solo a Gibilterra. Le lingue dei nostri vicini non sono l’inglese bensì il francese (che lo è a motivo non solo della Francia ma anche della Tunisia e dell’Algeria), il tedesco, l’arabo e le lingue della riva orientale dell’Adriatico.  Una lingua neolatina come il francese è ovviamente più facile, ma anche una lingua molto diversa dalla nostra diventa accessibile se la si avverte come prossima a noi geograficamente e storicamente. Questo a contrariis aiuta a capire perché nel nostro Paese tanti studenti pressati a imparare subito e solo l’inglese lo apprendono poco e male pur trattandosi di una lingua semplice, tanto più nella sua forma stereotipata oggi corrente.

In realtà non solo tanto meglio si vive ma anche tanto meglio si vende e si compra se si è padroni della propria tradizione e identità culturale, e si è quindi capaci di capire la tradizione e l’identità culturale dell’altro. Perciò un italiano inquinato dall’inglese non è affatto un buon biglietto da visita. Viceversa la capacità di parlare diverse lingue senza pasticciarle è una grossa risorsa anche economica, come ad esempio bene dimostra il caso della Svizzera. Forse proprio per questo è dalla Svizzera che da qualche anno si moltiplicano gli impulsi ad iniziative di valorizzazione dell’italiano. E’ del maggio 2014 il convegno sul tema “L’italiano sulla frontiera: vivere le sfide linguistiche della globalizzazione e dei media” che ebbe luogo a Basilea, nella Svizzera tedesca (cfr. red. Maria Antonietta Terzoli e Remigio Ratti, L’italiano sulla frontiera, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2015).  E’ interessante come in questo caso l’italiano fosse affermato e promosso in quanto lingua svizzera, senza alcun riferimento al suo essere la lingua dello Stato italiano. Questo non significa che i promotori del convegno volessero ignorare l’ovvia centralità dell’italiano in quanto lingua dell’Italia; tanto e vero che l’associazione culturale ticinese Coscienza Svizzera, che era un promotore principale del convegno di Basilea, nel 2015 ha poi contribuito con idee, relatori e risorse anche al convegno internazionale sul tema “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli  anglicismi” convocato a Firenze dall’Accademia della Crusca, la storica istituzione preposta alla tutela della lingua italiana. Il problema insomma è ormai posto, e ha ricevuto ulteriore rilievo dai recenti Stati generali della lingua italiana, che hanno avuto luogo a Firenze nello scorso ottobre. Finora però, e forse non a caso, la questione non trova eco sui grandi media, che o dipendono dai grandi gruppi editoriali multinazionali  o comunque ne subiscono l’influsso.