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EDITORIALE

La scuola non è buona, ma almeno serva ad aprire gli occhi

Approvata in via definitiva una riforma della scuola che ha al centro gli interessi degli insegnanti. Ma che è l'esito di decenni in cui alla questione scolastica non è stata data l'importanza culturale e politica che merita. E anche famiglie e scuole non statali dovrebbero cambiare radicalmente atteggiamento. 

Editoriali 10_07_2015
Buona scuola

Approvata ieri dalla Camera, la “Buona Scuola” di Renzi è diventata legge. Cinque deputati del Pd, tra cui Bersani, hanno votato contro. Quattro deputati di Forza Italia, vicini a Denis Verdini, hanno votato a favore. La situazione dentro il Pd, dove l’opposizione interna a Renzi non cessa di crescere, ha indotto il premier a rinunciare al secondo obiettivo di programma che si era prefisso di raggiungere prima delle ferie estive, ossia la riforma costituzionale nota col nome riduttivo di “riforma del Senato”, ma che in realtà è qualcosa di molto di più. In effetti è una riforma generale delle istituzioni della Repubblica nel segno del centralismo e dello statalismo: un progetto che merita di venire contrastato con tutte le forze da chiunque abbia a cuore la libertà politica e civile nel senso più compiuto del termine.

Ad ogni modo restiamo per il momento alla scuola riservandoci di tornare a tempo debito alla riforma costituzionale. La “Buona Scuola” di Renzi è passata con una maggioranza minima, 277 voti a favore, ma comunque ormai è legge. Si tratta, diciamolo subito, di un provvedimento pensato e sviluppato avendo a cuore non le necessità degli scolari, degli studenti e delle loro famiglie bensì gli interessi degli insegnanti; e in particolare degli insegnanti “precari”. Interessi legittimi, beninteso, ma non per questo principali. La scuola si fa (o si dovrebbe fare) per gli allievi, non per i docenti.

Significativamente invece il dibattito e le mobilitazioni a favore o contro questa riforma si sono sempre concentrate sulla questione degli insegnanti, delle loro carriere, del loro posto di lavoro. Mai ci si è soffermati sulla qualità dell’insegnamento e sulla quantità dell’apprendimento. E meno che mai ci si è soffermati sul drammatico fenomeno dell’abbandono scolastico. In tutta questa pretesa riforma della scuola (che in realtà è solo una riforma del sistema di arruolamento dei docenti della scuola statale) la questione educativa entra in gioco in un solo caso, per eccezione. E si tratta di una pessima eccezione. Sotto la spinta prepotente della “lobby” LGTB, con il comma 16 del maxiemendamento introdotto con un colpo di mano in  commissione, l’educazione di genere è entrata ufficialmente a far parte della attività extracurricolari nelle scuole di ogni ordine e grado. Per salvare capra e cavoli il ministro della Pubblica Istruzione Stefania Giannini ha emanato una circolare con cui si stabilisce che  tali corsi si possono indire soltanto con il “consenso informato” dei genitori. Di qui il rinnovato dovere e diritto dei genitori di vigilare al riguardo. Dall’anno scolastico che inizia nel prossimo autunno chi ha figli a scuola dovrà dunque preoccuparsi anche di questo.

Senza qui soffermarci oltre sui contenuti della riforma, di cui peraltro già in precedenza avevamo parlato (clicca qui), questa vicenda deve piuttosto indurci a qualche riflessione di più ampio respiro. Se il vuoto di questa riforma ha potuto diventare legge, per di più portando con sé il germe velenoso dell’apertura al “gender”, deprecare non basta. Occorre pure, anzi occorre in primo luogo domandarsi che cosa negli ultimi decenni è stato fatto, in campo prima culturale e poi politico, per mettere in discussione l’ideologia che sta alla base del monopolio statale della scuola pubblica sussidiata; per spiegare e mostrare alla gente il suo carattere autoritario; per far scoprire ai genitori il loro diritto-dovere di scegliere la scuola per i loro figli; per dimostrare con i fatti che una rete di scuole autonome statali o non-statali in sana concorrenza le une con le altre può garantire un’offerta educativa migliore.

Purtroppo possiamo dire con certezza  che tutto ciò non è accaduto. E ha fatto poco o nulla anche chi era stato tempestivamente educato a rendersene conto. Chi ha potuto si è fatto delle “sue” scuole, magari nate con l’intento di fare da punto di riferimento per una riforma generale ma poi troppo spesso ridottesi più che altro ad ambiti protettivi. In sede culturale e in sede politica invece alla questione scolastica non è stata affatto data tutta l’importanza prioritaria che meritava.

Gli organismi di rappresentanza delle scuole non statali si sono per lo più limitati a battagliare per ottenere dallo Stato contributi che sono briciole (tanto per fare un esempio, su una spesa statale complessiva nel settore di 57 miliardi di euro nel 2011-12 la miseria di 511 milioni di euro); e che per di più vengono branditi dai difensori del monopolio statale nientemeno che come… prova di una presunta volontà di definanziare il monopolio scolastico statale a vantaggio delle “private”. A troppe primogeniture si è rinunciato per qualche piatto di lenticchie. Ben venga dunque anche il topolino neo-corporativo della “Buona Scuola” di Renzi  se sarà finalmente l’occasione buona per aprire gli occhi sull’urgenza assoluta della questione scolastica e quindi sul dovere di tenerne assoluto conto.