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EDITORIALE

L'autoritarismo bonario di Renzi l'incantatore

Grandi capacità oratorie dispiegate da Renzi a Firenze per far passare la sua riforma costituzionale. Il premier la riduce a uno scontro fra luce e tenebre. Ma il suo progetto, incentrato sul centralismo e la concentrazione del potere a Roma, se non contrastato, condannerebbe l'Italia a un altro periodo di declino.

Editoriali 03_05_2016
Renzi al teatro Niccolini di Firenze

A chi non l’ha visto e ascoltato mi permetto di suggerire, quando ne avesse il tempo, di lasciare spento il televisore e andarsi invece a rivedere via Internet il discorso di ieri del premier Renzi al teatro Niccolini di Firenze. Lo si ritrova da varie parti; e rigorosamente per intero, saluti agli amici compresi, sul sito web della presidenza del Consiglio. E’ un esempio molto significativo del suo efficace stile oratorio tra il sovrano e l’informale, ma anche del suo riformismo “illuminato” ricco tanto di buone intenzioni quanto di un autoritarismo all’apparenza bonario, ma non per questo meno tale. Leopoldo II e gli altri Granduchi “illuminati” della casa di Lorena hanno evidentemente lasciato in Toscana un’eredità più forte di quanto a prima vista appaia, che Matteo Renzi ha saputo raccogliere e che adesso punta ad estendere a tutta l’Italia. 

Renzi ha poi di suo una grande capacità di incantare il pubblico, che non sappiamo se anche quei Granduchi avessero (e d’altro canto non ne avevano bisogno). Sa infatti magistralmente raccogliere il consenso o con richiami equivoci oppure ponendo l’accento su aspetti di dettaglio largamente condivisibili, all’ombra dei quali fa poi passare scelte di ben altra pasta e ben altro peso. E’ quel che si è visto anche nel suo discorso di ieri, che con grande snobismo Renzi ha giustificato semplicemente come una buona occasione per riempire le due ore libere che gli erano rimaste tra l’incontro con il primo ministro giapponese Shinzo Abe in visita a Firenze e la partenza per Matera, dove sarebbe volato a firmare un “patto per il Sud” con il presidente della Basilicata. Si trattava invece in effetti del discorso di apertura della campagna per il referendum costituzionale dell’ottobre prossimo.

Nella circostanza il premier ha voluto pure preannunciare che fra il 10 e il 12 maggio si voterà per le unioni civili, se necessario anche facendo ricorso alla fiducia. Un annuncio quest’ultimo nient’affatto estemporaneo, né fuori asse rispetto al tema del giorno. Nella logica neo-autoritaria del blocco di forze che non solo sostiene Renzi, ma pure lo sospinge e lo costringe quando necessario, in ultima analisi non c’è spazio per alcuna società naturale preesistente e indipendente dal potere politico. Pertanto tutto ciò che si può fare per indebolire e relativizzare la famiglia va fatto, e al più presto. D’altra parte vale lo stesso per la scuola, che Renzi e i suoi vogliono sia più che mai buona ma anche più che mai statale.  

Architrave del discorso era la tesi secondo cui quella che si delinea attorno al referendum costituzionale sarebbe la sfida tra “L’Italia che dice sì” e “L’Italia che dice no”. Bella frase; ma resta poi da sapere del “sì” o del “no” a che cosa si sta parlando. A sentire lui è la battaglia fra la luce e le tenebre: una riedizione dello scontro primordiale tra le schiere celesti di Michele e quelle di Lucifero. Nella sostanza si fa poi presto a capire che più modestamente si tratta di un “sì” o un “no” a lui e al suo governo.  Sono inoltre istruttive le frasi che dedica al vero nocciolo della riforma: l’annichilimento delle autonomie con il conseguente ritorno al centralismo del vecchio Stato liberale pre-fascista. Prima con dovizia di esecrabili esempi indica al ludibrio delle genti le Regioni - Toscana ed Emilia-Romagna escluse - perché alcune di esse hanno fatto cattivo uso della loro autonomia, e poi invita gli elettori non a risanare la situazione con l’arma democratica del voto bensì a lasciar fare a lui. Se passa la sua riforma ci penserà poi lui, da Roma, a rimettere ogni cosa a posto. Al centro del progetto politico di Renzi sta infatti qualcosa che è l’esatto opposto del principio di sussidiarietà, e quindi del metodo dell’autonomia responsabile. E’ l’idea che se al centro c’è un principe illuminato, oggi nel caso concreto lui stesso, il popolo ha soltanto il diritto e il dovere di lasciarlo lavorare. In tale prospettiva il federalismo incompiuto, che venne introdotto nel titolo V della Costituzione del 2002, non va compiuto ma anzi cancellato.

Sarebbe invece urgente rendersi conto che la via d’uscita dalle attuali indubbie inefficienze del nostro attuale sistema istituzionale non è una sola: non c’è solo il neo-centralismo della riforma Renzi-Boschi. C’è anche un’altra via, in realtà ben più promettente: quella del compimento del progetto federalista lasciato a metà dalla confusa riforma del 2002. Ovvero una riorganizzazione basata su competenze ben distinte per ogni livello di governo e sul nesso necessario tra autonomia e responsabilità fiscale. Intendendo per responsabilità fiscale il principio secondo cui ogni ente di governo finanzia le proprie spese solo e soltanto con le imposte che è in grado di raccogliere sul proprio territorio, salvo limitate compensazioni a titolo di solidarietà all’interno di ogni livello di autonomia: ovvero tra le Regioni fra loro o rispettivamente tra i comuni di una medesima Regione. E’ questo un meccanismo che, come tutte le esperienze autenticamente federali dimostrano, spinge tutti a spendere meglio e quindi meno. Anche perché i territori – che se spendono meglio sono liberi di tassare meno – per questo entrano in positiva concorrenza tra di loro. Finché tuttavia sul tappeto c’è solo la riforma Renzi-Boschi sarà molto difficile sbarrarle la strada. Quindi, anche al di là di qualche eventuale successo di corto respiro, il Paese non potrà che continuare con passi da gigante a discendere lungo il piano inclinato che lo sta portando ai margini dello sviluppo.