Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Atanasio a cura di Ermes Dovico
IRAQ

Le tre vite di Al Duri, jihadista per Saddam

L'ex braccio destro di Saddam e poi ex comandante militare dell'Isis, il generale Izzat Ibrahim al Duri, era dato per morto nel 2015. Ma è ancora vivo e incita alla lotta dei sunniti contro l'Iran sciita. Pare una sua terza vita, dopo quelle dedicate a Saddam e all'Isis. La sua storia va conosciuta per capire l'Iraq.

Esteri 09_04_2016
Al Duri ricercato come "re di fiori"

Strana vicenda che riguarda uno strano personaggio iracheno: Izzat Ibrahim al Duri, era dato per morto nel 2015 mentre combatteva al fianco dell’Isis, ma è ancora vivo e lancia proclami televisivi. E’ ricomparso in un video trasmesso dalla Tv pan-araba Al Arabiya intento a lanciare un proclama che invita alla lotta armata di tutti i sunniti contro l’Iran e i suoi collaboratori e alleati in Iraq e nello Yemen. Prima del 2015 era conosciuto come uno dei leader militari dell’Isis. Praticamente fu lui a conquistare Mosul e la piana di Ninive. Ma prima ancora, negli anni ’90 e primi anni 2000, era il braccio destro di Saddam Hussein e, dopo la guerra del 2003, uno dei capi “laici” dell’insurrezione anti-occidentale. Sempre ritratto nell’uniforme verde oliva dell’esercito regolare iracheno, baffi rossi e portamento anglosassone, è agli antipodi dell’immagine dei barbuti arcaici leader dell’Isis. Eppure la sua storia si intreccia con quella del radicalismo islamico iracheno, sin dalle sue origini ed è emblematica per comprendere tutte le ambiguità del conflitto iracheno (e di quanto stentiamo a comprenderlo con i nostri standard occidentali).

Izzat Ibrahim al Duri completa la sua intera carriera militare e politica sotto il regime di Saddam Hussein, di cui condivide la stessa origine tribale di Tikrit. In azione si dimostra un comandante spietato. Nel 1988 non esita a ordinare l’uso dei gas contro i curdi, dopo la Guerra del Golfo (1991), guida la feroce repressione contro la rivolta sciita. Benché privo di scrupoli militari, non era un jihadista: era laico e appartenente a un ordine sufi (Naqshbandi), una branca dell’islam solitamente lontana dall’estremismo. Eppure lo ritroveremo nel ventennio successivo nel ruolo di leader jihadista. Come mai? Perché i confini fra laicità e jihadismo, nei regimi militari arabi, soprattutto in quello di Saddam, sono molto più labili di quanto si pensi. L’unica appartenenza riconosciuta è l’islam sunnita, oltre alla propria tribù. Il resto è dettato dai tempi e dalle circostanze. La prima svolta del regime di Baghdad avviene già negli anni ’80: Saddam adotta una retorica islamica per poter combattere, a nome del mondo sunnita, contro l’Iran rivoluzionario sciita di Khomeini. Alla necessità retorica si aggiunge poi la necessità pratica: nel 1990 l’Iraq invade il Kuwait per impossessarsi delle sue immense ricchezze e sfida direttamente l’Arabia Saudita. L’argomento usato dal regime di Saddam per legittimarsi di fronte ai sunniti di tutto il mondo? L’alleanza fra la monarchia saudita e gli “infedeli” occidentali. Ecco dunque un passo ulteriore verso la islamizzazione. Negli anni ’90, persa la Guerra del Golfo e in piena crisi politica, il regime baathista dismette le sue vesti nazionaliste e socialiste arabe per adottare sempre più in profondità un’ideologia islamica, jihadista. Le “campagne per la fede”, lanciate in questo decennio di isolamento, saranno la base dell’estremismo sunnita che poi si trasformerà, nel tempo, nell’attuale Stato Islamico.

Quando al Duri è ormai il braccio destro di Saddam, nel 2002 l’Iraq inizia a riempirsi di jihadisti. Non è un’alleanza esplicita (di cui non furono mai trovate le prove), ma una collaborazione di fatto. Nella primavera di quell’anno arriva a Baghdad anche il giordano al Zarqawi, già pluri-ricercato, futuro leader di Al Qaeda in Iraq e principale ispiratore dell'attuale Isis. Nei primi anni 2000 si crea una collaborazione di fatto anche fra il regime iracheno e Al Qaeda nella no-fly zone settentrionale, contro le milizie del governo autonomo curdo. Dopo il rovesciamento del regime di Saddam da parte degli anglo-americani, al Duri diventa uno dei primi ricercati, il "re di fiori" nel sistema di identificazione americano fatto con le carte da gioco. Continua a fuggire alla cattura e non solo: riunisce laici e jihadisti sotto un'unica bandiera. Al Duri, da ex uomo di regime, coordina e finanzia tutte le formazioni della guerriglia sunnita, sia quelle laiche che quelle dichiaratamente jihadiste, inclusa Al Qaeda. Riporta in Iraq il gruppo di Al Zarqawi che, sin dalla fine dell'anno precedente, era riparato in Iran. Gli sciiti (oltre agli occidentali), ormai al governo e maggioranza solida nel paese, sono il principale bersaglio. La guerriglia assume subito i connotati di un conflitto religioso fra sunniti e sciiti. Il decennio precedente di islamizzazione aveva preparato il terreno per questo scenario. 

Solo nel 2006, dopo la condanna a morte di Saddam Hussein, scende in campo con la sua milizia, l’Armata degli Uomini dell’Ordine Naqshabandi, in stretto collegamento con il Nuovo Partito Baath. Scopo ufficiale del gruppo armato: restaurare il regime baathista (nazionalista). Scopo non dichiarato: unire tutte le forze sunnite contro gli sciiti e la coalizione. Il programma del gruppo ha infatti sempre unito una retorica nazionalista ad una prettamente jihadista. Il gruppo armato di Al Duri non ha mai disdegnato l’alleanza con Al Qaeda e, dal 2005, non ha aderito al “risveglio” sunnita contro le milizie jihadiste, avendo sempre, quale nemico principale, gli sciiti e le forze della coalizione.

Una volta completato il ritiro di tutte le forze internazionali, incluso l’ultimo contingente americano, nel 2011 la lotta di al Nuri prosegue comunque contro gli sciiti di governo, dunque contro l’esecutivo Al Maliki e il nuovo ordine democratico iracheno. Questo spiega come, nel 2013-2014, quando l’Isis diventa la principale forza armata sunnita, al Nuri vi aderisce e diventa un comandante militare degli jihadisti, assieme a molti altri ex ufficiali dell’esercito di Saddam, della sua intelligence e delle sue unità d’élite. Il loro è un ruolo che è stato spesso descritto come quello di “tecnici” al servizio del miglior offerente. La stessa collaborazione è messa in discussione da fonti irachene: ex ufficiali baathisti e jihadisti, anche nel corso del 2014, si sono combattuti e si sono alleati a fasi alterne. In realtà il loro ruolo è in piena continuità con la loro missione di sempre, quell’orgoglio sunnita che, persa la guerra e poi perso Saddam, continua a radicalizzarsi sempre di più, fino alla follia teologica e totalitaria dello Stato Islamico. E adesso, che sviluppo potrebbe avere?

L’appello di al Duri per una coalizione filo-saudita può apparire sconcertante, proprio alla luce della sua storia recente. Ma come? Proprio chi aveva guidato l’Isis alla conquista di Mosul, ora si schiera dalla parte di una coalizione sunnita che dovrebbe essere nata proprio allo scopo di combattere… l’Isis? Sì, perché, evidentemente, l’obiettivo principale è l’Iran, il nemico è sempre l’islam sciita, il resto sono diversioni. Dopo mesi di guerra fredda, iniziata a gennaio con la rottura delle relazioni fra Iran e Arabia Saudita, siamo entrati in una fase di disgelo. I sauditi permetteranno ai pellegrini sciiti di recarsi alla Mecca. Ma proprio in un momento di disgelo ufficiale, l’orgoglio sunnita si risveglia, chiama alla guerra santa. E noi, intanto, continuiamo a sbagliare se rimpiangiamo un Saddam quale soluzione allo jihadismo sunnita: è semmai quello all’origine del problema. Oppure continuiamo ad illuderci che la guerra all’Isis possa essere vinta con una coalizione di sunniti contro altri sunniti.