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IL VIAGGIO A UR

L'equivoco interreligioso dei "Figli di Abramo"

Va bene invitare a collaborare le tre religioni per lo sviluppo e la pace, ma non si può far diventare quella dei Figli di Abramo una nuova religione. Ma è proprio il rischio che si corre con l'approccio di papa Francesco ieri a Ur. 

Ecclesia 07_03_2021 English Español
Incontro interreligioso a Ur

Si sapeva, e si sa, che il viaggio di papa Francesco in Iraq sarebbe stato, ed è, irto di pericoli. Molti i temi controversi, molte le lacerazioni ancora vive, molti gli interessi politici e religiosi in gioco. Si sapeva e si sa, quindi, che i suoi interventi avrebbero dovuto tenere conto di una situazione delicata, dai nervi scoperti ed esplosiva. Su alcuni argomenti sarebbe stato meglio tacere, su altri adoperare le parole più adatte, su altri ancora solo accennare e, infine, di altri parlare chiaro o addirittura molto chiaro. Non c’è alcun dubbio che si tratti di un viaggio molto “politico”. Non stupisce, quindi che a giudizio di qualcuno su alcuni argomenti si sarebbe potuto dire meglio e, a giudizio di altri, che invece il papa ha fatto bene a parlare come ha parlato.

Precisato che le attese su questo viaggio devono, per i motivi appena ricordati, essere con realismo adattate alla situazione concreta, rimane però aperto un problema, connesso sì con il viaggio in Iraq ma dotato di una sua rilevanza ben superiore. Un tema su cui questa visita influirà moltissimo anche in futuro. Mi riferisco al dialogo interreligioso.

In una situazione complessa come è quella dell’Iraq, si comprende la necessità di parlare di collaborazione e, soprattutto, di collaborazione tra le religioni, con particolare riferimento alla cristiana, ebraica e musulmana. In un clima esplosivo come quello iracheno bisogna spargere acqua, non accendere nuove fiamme. Si può comprendere allora che il Papa si sia presentato come messaggero di pace e di convivenza fraterna, cercando di spegnere le tensioni e gli odi e seminando speranza.
Bisogna però anche chiedersi se un simile discorso di pace e collaborazione debba spingersi fino a eliminare la distinzione tra le tre religioni e a indicare la via del dialogo interreligioso secondo modalità discutibili. Se la situazione dell’Iraq ha bisogno della collaborazione sul piano umano e sociale delle tre religioni più rappresentate e più rappresentative, ciò nulla c’entra con una presentazione uniformante delle tre religioni come se fossero una sola: “la religione dei Figli di Abramo”.

In questi giorni della visita in Iraq, e soprattutto ieri nella Piana di Ur, è avvenuto invece proprio questo passaggio, dando l’impressione di aver voluto forzare, premendo l’acceleratore su un tema, quello dell’unità delle religioni abramitiche, mentre il Paese aveva solo bisogno di collaborazione sul piano umano per la ricostruzione.

Detta in termini più sintetici: chi vive in Iraq - e soprattutto i fedeli delle tre religioni cristiana, ebraica e musulmana - può collaborare per la pace, l’ordine, lo sviluppo anche senza pregare insieme come “Figli di Abramo” lo stesso Dio. Ma appunto questo papa Francesco ha proposto alla fine del suo discorso nella Piana di Ur, una preghiera da pregare insieme in quanto tutti figli di Abramo. Questo salto non richiesto va oltre la necessità della convivenza pacifica e dalla situazione irachena sembra prendere l’occasione per mirare ad altro.

L’espressione “Figli di Abramo”, come del resto quella sulle “religioni del Libro”, sono prive di contenuto, sono solo delle figure retoriche. Le tre religioni in parola hanno tre visioni ben diverse di Abramo, come le hanno del Libro. E questo accade perché sono tre religioni profondamente diverse, e non in semplici dettagli. Papa Francesco ha giustamente lodato la convivenza nell’Iraq delle tre religioni prima dei recenti tragici eventi, ma quella convivenza era appunto tra religioni diverse che per convivere non hanno bisogno di diventare un’unica religione, come l’espressione “Figli di Abramo” e la preghiera stilata dal Papa fanno pensare.

Nel discorso nella Piana di Ur, Francesco ha detto che “se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo”. È vero che “l’uomo non è onnipotente”, che “da solo non ce la può fare” e che “se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene”, ma questo riferimento al Cielo, espresso in modo tale che vada bene per tutti, è vuoto, senza volto, generico e quindi insignificante. La visione di chi abita il Cielo è per le tre confessioni molto diversa ed anche i precetti dell’amore e della fratellanza, che Francesco attribuisce alla “vera religiosità” dei Figli di Abramo, pure differiscono alquanto tra di loro.

Già la collaborazione sul piano umano e sociale tra religioni diverse è alquanto difficile. Questo perché i temi della pace o della giustizia non sono neutri rispetto ai riferimenti ultimi di tipo religioso. Però data la situazione difficile dell’Iraq sottolineare questi aspetti sarebbe stato improvvido. Lo fece già Benedetto XVI a Regensburg e dovette pentirsene. Si può quindi accettare una proposta di accoglienza, rispetto e collaborazione contro la violenza e l’ingiustizia in Iraq. Ciò è più che sufficiente.
Perché, invece, spingere in avanti verso una inesistente unità religiosa abramitica se non per motivi che poco hanno a che fare con le difficolta dell’Iraq oggi e che forse riguardano più l’interno della Chiesa cattolica che non l’esterno e che poche possibilità hanno di essere veramente accolte dagli altri?