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IL CASO

L'ultima follia di Roma: Piazza Ipazia

«Ipazia chi?». Immagino (facilmente) la domanda che si porranno i romani quando e se verrà dedicata una piazza anche a costei. Ora, poiché la giunta capitolina del sindaco Marino una piazza non la nega a nessuno (ne ha appena intitolata una a Lutero), la raccolta di firme andrà sicuramente a buon fine.

Politica 12_06_2015
Il sindaco di Roma Ignazio Marino

«Ipazia chi?». Immagino (facilmente) la domanda che si porranno i romani quando e se verrà dedicata una piazza anche a costei. Ora, poiché la giunta capitolina una piazza non la nega a nessuno (ne ha appena intitolata una a Lutero), la raccolta di firme che i soliti volenterosi stanno compiendo andrà sicuramente a buon fine (anche una firma in margine a una petizione –purché sia politicamente corretta- non si nega a nessuno). Ma, che volete farci, “il dovere della memoria” (a senso unico) è ormai come la leva militare nella Costituzione italiana: «sacro dovere del cittadino». L’occasione per la raccolta di cui sopra è la mostra riminese al Museo del Calcolo (non sapevo ce ne fosse uno, ignoranza mia) dedicata a Ipazia, che morì giusto sedici secoli fa, nell’anno 415. Sì, avete letto bene: milleseicento anni, per la maggior parte dei quali nessuno si era accorto che tra i filosofi nel mondo antico ce n’era una (una!) femmina. 

La fortuna di Ipazia cominciò, dunque, quando il “genere” venne in auge (cioè, l’altroieri) e (un po’ prima) quando qualcuno si ricordò che era stata ammazzata da cristiani (cioè, nel solito Illuminismo). Insomma, un simbolo, come Giordano Bruno, in chiave puramente anticattolica. E pazienza se di Ipazia non si sa quasi nulla, mentre di Giordano Bruno rimangono gli scritti. Scritti che pochi hanno letto e sono ancora meno quelli che ci hanno capito qualcosa. Be’, di Ipazia neanche questo. Voi direte: ma come, l’Isis sta distruggendo, e adesso, mezza archeologia mediorientale musei compresi, e questi qua la menano con una storia del V secolo? Girate la domanda a quello che si evira per fare un dispetto alla moglie o a quello che si diverte a segare il ramo su cui sta seduto. Vi risponderà che il livore ideologico è più forte del buonsenso. 

Riassunto per chi si fosse perso la puntata precedente: nel 2009 il regista Alejandro Amenábar dedica un film (Agorà) a Ipazia, opera realizzata senza badare a spese. Nel film Ipazia è bellissima e trucidata su ordine del vescovo Cirillo di Alessandria. I titoli di coda informano che la Chiesa ha addirittura osato canonizzare questo individuo (in effetti la Chiesa ha fatto anche di più, visto che san Cirillo di Alessandria è Padre e Dottore della Chiesa). La vera Ipazia aveva sessantacinque anni e fu linciata dai parabolani, sorta di fanatici che si agitavano in una città in cui era normale, a quel tempo, darsi addosso a mano armata tra ebrei, cristiani e pagani, tanto che l’imperatore doveva intervenire spesso con le cattive. Il film lo vidi l’anno dopo, in dvd. E scoprii, con mia sorpresa, di esserci finito dentro. Sì, perché negli “extra” c’era una conferenza sul tema con relatori esperti (uno era l’amministratore delegato mi pare dell’Enel), tra cui Umberto Eco e Vito Mancuso. Insomma, esperti, sì, ma nel dare addosso alla Chiesa. Mancuso strappava applausi ironizzando su Benedetto XVI che aveva elogiato in una sua omelia san Cirillo. Eco, più modestamente, citò me, chiarendo agli altri relatori che non ero quello di Montalbano (che ha una sola emme nel cognome), bensì “il difensore dell’ortodossia”. Mah, il titolo di Defensor Fidei ce l’ha pure la regina d’Inghilterra, dunque non so se debba vantarmene. 

Fui citato, ovviamente, per uno svarione. Era successo che, uscito il film, ero stato tempestato da mail di lettori che  volevano sapere da me chi diavolo era ‘sta Ipazia ammazzata dai cristiani. Preso alla sprovvista, risposi a memoria tirando in ballo Eusebio di Cesarea, storico della Chiesa di quel periodo. Errore marchiano, perché Eusebio era morto da qualche anno. Errore subito corretto quando ebbi il tempo di studiare (mi scuso se non conosco a memoria tutta la storia del cristianesimo), ma quel che fece il giro del web fu –naturalmente- l’errore, non la correzione. Mea culpa, sarei dovuto essere più guardingo, invece ero stato candido come una colomba anziché astuto come un serpente. Così, la conferenza celebrò Ipazia come martire del maschilismo e dell’oscurantismo. Di chi? Della Chiesa. E dei suoi talebani (tra cui il  sottoscritto). Ma il bello dei tempi in cui ci tocca vivere è che “il dovere della memoria” è quanto di più effimero esista. Cessato l’effetto-film, Ipazia tornò nell’oblio collettivo già il mese dopo. 

Non so quanti visitatori giornalieri abbia il Museo del Calcolo di Rimini, ma un centenario, per definizione, dura poco. La piazza, allora. A Roma, città del Papa. É pur vero che, in una megalopoli, una piazza in più rischia di annegare tra le altre centinaia. Non importa, quel che conta è il principio. Immagino il colloquio tra i passanti già il giorno successivo all’inaugurazione. Domanda: «Papà, chi era Ipazia?». Risposta: «Boh. Aspetta, che mi aggiusto gli occhiali. Ah, ecco, una filosofa del V secolo. C’è scritto sotto». Replica: «Papà, mi compri il gelato?».