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MES, perché per l’Italia è un cattivo affare

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L’adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità quasi certamente ci sarà. Ma esso ha un patrimonio insufficiente e altissimi costi per l’Italia, che pure non avrebbe potere di veto, a differenza di Francia e Germania. E poi ci sarebbero condizioni-capestro.

Economia 04_07_2023
Sede Commissione Europea (ritaglio, CC, EmDee)

C’è una buona notizia nel parlare di MES (Meccanismo Europeo di Stabilità): se ne dibatte spesso in termini di pura ideologia e di appartenenza “europea” in una confusa dialettica che porta a un continuo spostare in avanti l’adesione.

La cattiva notizia è che, quasi certamente, l’adesione vi sarà: l’attitudine dell’esecutivo attuale ad essere eterodiretto, non si discosta, per necessità di sopravvivenza, da quelli precedenti, pur in presenza di un trattato di estrema pericolosità per il futuro del Paese oltre che strumento inutile.

Intanto si deve sapere che il MES è istituzionalmente collegato a Nuovo Patto di Stabilità, EBA (Autorità Bancaria Europea) e politiche monetarie della BCE (Banca Centrale Europea). Il pivot intorno a cui si gioca il futuro del Paese è il Nuovo Patto di Stabilità: il MES è lo strumento operativo per modellare – con il loro consenso – le economie e gli Stati nel senso desiderato da altri.

Il MES è un’istituzione finanziaria internazionale di diritto privato che fornisce aiuto ai Paesi dell’area dell’euro in difficoltà finanziaria, a condizione che rispettino determinati requisiti. 1) il requisito principe è l’implementazione delle “condizionalità rafforzate” imposte alla nazione che ne richiede l’accesso e l’intervento. Esse «rimangono uno dei principi di fondo del trattato» (art.5bis di modifica del Trattato); 2) il motivo per cui una nazione richiede l’accesso al MES è l’impossibilità ad accedere al mercato del debito per finanziarsi.

Ma cosa si intende con questa impossibilità? Se domani ad esempio, il mercato dei capitali incominciasse a vendere violentemente BTP (Buoni del Tesoro Poliennali), il valore di questi scenderebbe velocemente e drasticamente. La diminuzione del prezzo di una obbligazione ha un effetto inversamente proporzionale al suo rendimento a scadenza. Investitori privati o istituzionali che detengono l’obbligazione vedono scendere il valore del loro capitale. Questo sino alla scadenza, quando il possessore si vedrà riconoscere la totalità del capitale oltre che aver incassato le cedole. Per chi invece acquista l’obbligazione durante o dopo il “drop” (il calo) del prezzo, spende meno per la stessa merce e se deterrà l’obbligazione sino a scadenza otterrà un rendimento maggiore avendola comprata ad un prezzo più basso.

Ma il mercato del debito non è immobile: continuamente lo Stato fa e “piazza” debito, chiedendo al mercato di comprarlo in asta. Il tasso riconosciuto è funzione soprattutto del rischio: e se il mercato ha venduto violentemente e massicciamente i titoli di Stato italiani significa che non li vuole tenere perché rischiosi e non solo per la perdita di una parte di valore – il “drop” – ma per il rischio di default o ristrutturazione del debito: che significa perdita totale del capitale o di gran parte di esso. Dunque, lo Stato per piazzare il proprio debito deve alzare i tassi riconosciuti a chi gli presta i soldi: e questo sino ad un livello “non sostenibile”. Ecco che si configura l’«impossibilità ad accedere al mercato». Se l’economia è importante – come quella italiana ad esempio – vi è un effetto contagio (debitori-creditori-valori posti a garanzia) e la crisi si espande rapidamente ad altri sistemi economici .

La crisi greca del 2010 si estese nel 2011 trasformandosi in quella conosciuta come “del debito sovrano” – mentre in realtà era debito privato – obbligando l’Unione Europea alla creazione di strumenti per stabilizzare le economie: nessuno nell’Europa finanziaria calvinista aveva pensato che quel che stava avvenendo potesse realmente accadere e portar giù il sistema e soprattutto le banche tedesche molto esposte con la Grecia.

Per riparare una delle innumerevoli mancanze e dei fallimenti dell’Euro vennero così creati l’EFSM (Meccanismo Europeo di Stabilità Finanziaria) e l’EFSF (Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria), progenitori del MES. Se il MES a prima vista nasce per un fine positivo, è da ritenersi che così non sia: in esso gli svantaggi sorpassano di gran lunga i vantaggi.

In sintesi: a) Il MES ha una dotazione patrimoniale insufficiente e altissimi costi per l’Italia. È dotato di un capitale sottoscritto di 704,8 miliardi di euro, di cui 80,5 versati; la sua capacità di prestito ammonta a 500 miliardi. Tecnicamente la potenza di fuoco del MES è dunque di soli 80,5 miliardi ed è allo stato dell’arte insufficiente a fronte delle dimensioni dei debiti nazionali pre e post pandemia e delle transazioni giornaliere per un supporto nei mercati primari e secondari. b) L’Italia ha sottoscritto il capitale per 125 miliardi, versandone ad oggi 14, oltre ai 44 già versati nel precedente EFSF, per un totale di 58 miliardi di euro. Di questi fondi italiani hanno usufruito solo altre nazioni (Grecia, Spagna, Irlanda, Cipro), mai la Repubblica Italiana; c) la quota sottoscritta dall’Italia rappresenta il peso che questa ha nella ripartizione del capitale BCE (oggi con l’uscita del Regno Unito è leggermente superiore, ovvero del 13,81%), e rappresenta anche il “diritto di voto” che l’Italia ha nel MES. Per regolamento, la parte del capitale MES non versata è “richiamabile” in qualsiasi momento in caso di necessità: ovvero l’Italia, in caso di richiesta, dovrebbe fornire il finanziamento mancante corrispondente con breve preavviso (giorni), e quindi versare la differenza tra i 125 miliardi sottoscritti e i 14 miliardi versati; d) Il diritto di voto dell’Italia all’interno del MES è del 12,5%, ovvero inferiore al 15% necessario per esercitare un veto, e comunque inferiore a quello di Francia (16,6%) e Germania (21,43%). Gli interessi di Germania e Francia sono in linea di massima divergenti da quelli italiani: intorno al tavolo societario l’Italia sarebbe sempre e comunque decisionalmente irrilevante.

Ci avviciniamo al punto centrale: le condizionalità rafforzate imposte alla nazione che ne richiede l’accesso e l’intervento. Le condizionalità sono le regole di governo della propria economia – e dunque del proprio stato sociale – imposte dal MES nella persona del suo direttore generale in accordo con il Consiglio e con la BCE (e l’FMI): la nazione che ne fa richiesta di utilizzo accetta di implementare e di sottoscrivere un memorandum di intesa, volto a formalizzare le linee del MES. Ha spiegato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: «Il sostegno viene offerto a fronte di una rigorosa condizionalità e di un’analisi della sostenibilità del debito pubblico effettuata, secondo le regole del Trattato in vigore, dalla Commissione europea, di concerto con la BCE (ove possibile, anche insieme all’FMI). La condizionalità varia a seconda della natura dello strumento utilizzato: per i prestiti assume la forma di un programma di aggiustamento macroeconomico, specificato in un apposito memorandum; è meno stringente nel caso delle linee di credito precauzionali, destinate a Paesi in condizioni economiche e finanziarie fondamentalmente sane ma colpiti da shock avversi».

Il primo concetto è dunque lasostenibilità del debito pubblico” e l’ipertrofia del debito pubblico stesso, aggiungiamo noi. Il secondo è la possibile ristrutturazione “automatica” che è prevista nelle CACS (Clausole di Azione Collettiva) del nuovo trattato in forme nuove. Inoltre, contestualmente, il (Nuovo) Patto di Stabilità e Crescita chiedeva e chiede una riduzione sostanziale del debito pubblico e del tetto per il contenimento del deficit che sino al 2020 era del 3%, in rapporto al PIL.

Il combinato disposto delle due operazioni è micidiale: Banca d’Italia, nel suo Bollettino economico di aprile 2023, prevede un debito pubblico del 156,9% del PIL nel 2023 in diminuzione rispetto al 159% del 2022. Ma a fine maggio il BTP decennale 11/2033 è stato piazzato con un rendimento del 4,35%: a gennaio 2022 era 3,4 punti percentuali in meno (0,9%), all’insediamento di Draghi era quasi 4 punti percentuali in meno (0,5%).

Fra due anni la quota prestiti di 122,5 miliardi del NextGen EU (PNRR) entrerà a far parte del debito pubblico complessivo e si inizierà a ripagarla con costi sul servizio del debito (il pagamento delle cedole) dalle 3 alle 4 volte superiori, in ambiente di tassi crescenti. Qui entra il secondo punto: l’aggiustamento macroeconomico richiamato da Visco è centrale nel Memorandum. In parole semplici: riforme e tagli, sino alla possibilità di ristrutturazione del debito. Non sta a noi fare previsioni sulla reale sostenibilità ma quel che è certo è che la situazione è molto seria, una tempesta perfetta se ci aggiungiamo inflazione da costi energetici, i costi bellici e appunto il crescente costo del servizio del debito.

In questo scenario – che non è di breve termine – i mercati non possono avere certezze sulla sostenibilità e sul suo rientro. Rientro che giustamente si limiterà a riduzione e che comporterà già di per sé tagli importanti in uno scenario dove la crescita reale la vede solo chi vuole vederla. Ciò detto e tornando ai mercati – perché saranno loro gli arbitri – pensiamo che solo la firma del trattato possa indebolire la già bassa fiducia e innescare vendite sapendo che la BCE non è disposta a sostenere i titoli.

Aggiungiamo un tema dibattuto ma non certo: la semplice firma del trattato potrebbe cambiare la “seniority” del debito italiano ovvero renderebbe il MES creditore privilegiato rispetto ai cittadini italiani e ai detentori istituzionali. Se questo elemento – dibattuto e ancora controverso – fosse reale, già solo la firma condurrebbe ad una perdita di fiducia immediata vera o presunta e innescherebbe vendite.

Concludendo: una volta firmato il trattato il ricorso ad esso è a portata di mano. E non è improbabile che, a fronte di turbolenze più o meno marcate, arrivino pressioni da Bruxelles per accedere all’assistenza del MES. E da lì non c’è ritorno.