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DOPO L'IRAN

Non ci sarà pace senza l'intesa con i sauditi

È il compromesso della speranza che aveva la guerra come unica alternativa, sostiene Barack Obama. È un errore storico che pagheremo tutti caro, ribatte il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Da quando l'accordo sul nucleare iraniano è stato ufficialmente firmato il dibattito è diventato sostanzialmente questo.  Ma resta ancora una domanda senza risposta: il negoziato con l'Arabia Saudita quando comincia?

Esteri 25_07_2015
Salman bin Abdulaziz Al Saud, re dell'Arabia Saudita

È il compromesso della speranza che aveva la guerra come unica alternativa, sostiene Barack Obama (e le diplomazie di mezzo mondo dietro di lui). È un errore storico che pagheremo tutti caro, ribatte il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Da quando l'accordo sul nucleare iraniano è stato ufficialmente firmato, la scorsa settimana, il dibattito è diventato sostanzialmente questo. E sarà così probabilmente fino al voto decisivo del Congresso, cui si arriverà nell'arco di due mesi. Ci sarebbe, però, una domandina alla quale tanto gli entusiasti dell'accordo quanto i suoi critici sarebbe bello se qualche volta rispondessero altrettanto apertamente: ma il negoziato con l'Arabia Saudita quand'è che comincia? E, nel caso dovesse essere necessario, con loro delle sanzioni un giorno potremo davvero permettercele?

Non è un mistero per nessuno che - nonostante la reazione mediaticamente molto meno veemente rispetto a quella di Israele - i sauditi oggi siano i più contrariati dall'esito del negoziato con Teheran. Avevano puntato sul cambiamento innescato dalle cosiddette primavere arabe per liquidare i conti con gli iraniani, dopo lo smacco subito nel dopo Saddam Hussein. E trascorsi quattro anni di guerra in Siria e con l'Iraq di nuovo nel caos, alla fine vedono gli odiati ayatollah riammessi a pieno titolo nella comunità internazionale. Con un accordo che solo gli inguaribili ottimisti possono pensare escluda davvero la possibilità per Teheran di dotarsi dell'arma nucleare. Non è che non se l'aspettassero, ormai, a Riyadh. Da tempo, infatti, anche loro si stanno attrezzando con le contromisure. Da quando il Pakistan si è dotato dell'atomica nella rincorsa all'India si era sempre detto che, in caso di necessità, anche i sauditi sarebbero stati della partita. 

Ma adesso anche gli al Saud, nonostante i loro immensi giacimenti di petrolio, hanno cominciato a subire in prima persona il fascino del nucleare civile. Recentemente hanno firmato accordi con la Francia (che quando si tratta di fare affari con i sauditi non manca mai) ma anche con la Russia per la costruzione di sedici reattori. Certo, non è automatico il passaggio dalle centrali nucleari alla produzione della bomba; ma quali controlli sono previsti da parte della comunità internazionale in questo senso? E in base a che cosa lo sviluppo di tecnologia nucleare nella penisola arabica anziché in Iran dovrebbe essere un fatto più tranquillo e sicuro per tutti?

Il punto è che l'accordo sul nucleare iraniano ha un senso solo se lo stesso impegno messo in campo dai 5+1 per arrivare a questo risultato proseguirà ora per arrivare a una pace regionale, che ponga fine allo scontro che dalla Siria allo Yemen insanguina l'intero Medio Oriente. Quella guerra a tutto campo che è l'habitat ideale per il proliferare di schegge impazzite come lo Stato Islamico, ormai incontrollabile persino dagli apprendisti stregoni che con i loro rifornimenti di armi ne hanno costruito la fortuna.

È inseparabile la questione dell'accordo sul nucleare iraniano dal conflitto che come una macchia d'olio negli ultimi anni si è esteso fino a formare quella che papa Francesco chiama la guerra mondiale a pezzi. Perché senza un impegno coordinato di Stati Uniti, Europa, Russia e Cina il rischio più grave è che - prima ancora che Israele - il prezzo dell'intesa lo paghino i siriani, gli iracheni e gli yemeniti. È fin troppo facile, infatti, prevedere che i proventi del petrolio che l'Iran ricomincerà a vendere alla luce del sole - appena rientrato dalla porta principale nella comunità internazionale - si trasformeranno in nuovi armamenti da inviare nelle zone di conflitto (guarda caso nell'elenco di personalità che usciranno dalla lista dei soggetti iraniani sottoposti alle sanzioni c'è anche il potentissimo capo della Guardie rivoluzionarie, Qassem Soleimani...). Ed è impensabile che l'Arabia Saudita a quel punto stia a guardare; giusto per portarsi avanti, già in queste ore gli aerei della sua aviazione sono atterrati ad Aden per consegnare “rifornimenti”.

Scordiamoci allora la retorica del Congresso o della stessa Knesset: è ad Aleppo o a Mosul che si vedrà se l'accordo sul nucleare iraniano è davvero un passo avanti verso la pace oppure è solo un riposizionamento degli interessi di ciascuna delle grandi potenze. Ci sarebbe da aggiungere infine che - almeno in linea teorica - la Turchia sarebbe il Paese che economicamente avrebbe maggiori opportunità spalancate davanti a sé con la fine delle sanzioni a Teheran. Basterebbe che abbandonasse la politica fallimentare adottata sulla Siria per tornare al pragmatismo su cui fino a qualche anno fa aveva costruito la propria fortuna. Ma una volta scoperchiato il vaso di Pandora, Erdogan è davvero ancora in grado di richiuderlo?