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DONALD TRUMP

Non esiste alcuna congiura dei social network

Non esiste e non può esistere, se non altro per motivi tecnici, una cospirazione dei social network, a partire da Facebook, per far vincere il candidato repubblicano Donald Trump. Semmai esiste il fenomeno della "bolla di filtraggio": sui social vedi solo ciò che ti piace. E i Democratici si sono accorti troppo tardi di un popolo che per loro "non esisteva".

Cultura 16_11_2016
Mark Zuckerberg

Donald Trump non è stato aiutato dai social network, e affermare il contrario è una considerazione davvero labile, soprattutto per ragioni politiche. In due sensi: anzitutto, la tesi che avalla la congiura dei social network a favore del candidato repubblicano si basa sul fatto che Facebook - per dirne uno, ma sotto il suo cappello, ricordiamo, c’è anche Instagram (e ci sarebbe anche WhatsApp, ma qui entriamo nel mondo dell’Instant Messaging che ha scenari affini ma distanti da quelli dei social network) - Twitter e tutta la compagnia non abbiano oscurato alcuni messaggi che favorivano Donald Trump: contenuti di campagna elettorale che secondo la classica vulgata democratica mal si sposavano con il buonismo da salotto imperante nei nuovi sistemi di comunicazione. Cosa che ha anche invitato la candidata democratica a richiedere la chiusura dell’account Twitter del candidato repubblicano, ma qui si tocca anche lo spinoso argomento della mail hackerata dell’ex First Lady, oggetto del tweet di risposta di Donald Trump, e si scivola su argomenti di cui non vogliamo trattare.

La seconda ragione, più evidentemente politica, riguarda i dissapori di Donald Trump verso la Silicon Valley, mai negati dall’imprenditore sin dai tempi in cui, durante la campagna elettorale, richiedette la password di accesso per lo smartphone di un terrorista, richiesta negata dal quadro direttivo di Apple per non fornire precedenti alla violazione della privacy. Se ad esso si aggiungono gli affetti manifesti dell’ormai ex presidente Barack Obama e Mark Zuckerberg: il fondatore di Facebook nel 2013 fu reclutato dalla Casa Bianca in veste di consigliere per la comunicazione e “alto commissario per la vita privata” dell’allora presidente. Il quadro che si delinea è quello di una certa ritrosia tra gli imprenditori hi-tech americani e il candidato repubblicano. 

Donald Trump non è stato aiutato dai social network, ma ha stravinto nei social network. Il tam tam mediatico ha concesso al repubblicano - secondo dati estratti da Brandwatch, uno dei più precisi strumenti di ascolto della rete - di essere sempre sulla cresta dell’onda. Su Twitter l’elezione di Trump è stata battezzata da una media di 30.000 contenuti al minuto dall’inizio delle elezioni sino all’annuncio del vincitore. In questo lasso di tempo, Donald Trump ha accumulato 4,9 milioni di mention (ovvero di contenuti recanti il suo nome) mentre la Clinton 2,7 milioni. È quindi vero che, quantitativamente, Donald Trump avrebbe potuto avere un vantaggio per la ricorrenza del proprio nome sui social. Ma questa ricorrenza non trova un riscontro qualitativo: che se ne parlasse bene o male, ad oggi, non v’è certezza statistica. E il mantra «purché se ne parli» è, sui social network, davvero rischioso.

Tuttavia non si può negare un problema già analizzato da Eli Parisier - CEO di Upworthy, un sito di viral contenting - ovvero quello della creazione di ”filtering bubble”, cioè “bolle di filtraggio”. Le informazioni che riceviamo dai social network sulla nostra schermata sono definite da un algoritmo che ha l’obiettivo di fornire i contenuti più rilevanti all’utente ed evitare che lo stesso finisca “sommerso” da una serie di contenuti che, magari, non gli interessano. Questo algoritmo è definito da una serie di varianti - dal  ciò che ci piace, da ciò che piace ai nostri amici, dai contenuti che selezioniamo, dalle interazioni che facciamo con i contenuti, dalle parole che cerchiamo sui motori di ricerca - che crea ambienti digitali definiti da una pre-selezione e che riproducono all’infinito contenuti “a senso unico”, rendendoci ciechi ad altre prospettive. 

È, a livello digitale, più o meno quello che succede quando frequentiamo un circolo culturale con delle idee ben circoscritte. I nostri amici appartengono a questo circolo: con loro discutiamo delle idee che il circolo propone e ci troviamo molto d’accordo con quanto esse esprimono. Tra di noi ci consigliamo libri in linea con i dettami del circolo, guardiamo gli stessi programmi televisivi, tifiamo per la stessa squadra di calcio. Ci siamo creati uno spazio su misura che celebra la nostra posizione come quella veritiera ed unica. Sui social network, la definizione dei contenuti di questa cerchia avviene sulla base di una serie di azioni dell’utente e dei suoi amici. Ciò definisce i contenuti che vengono visualizzati che, di fatto, saranno quelli che i nostri amici apprezzano di più, delle testate giornalistiche che noi seguiamo di più, e via così. Questo definisce uno spazio social dove noi, credendo di vedere le opinioni più disparate, in pratica osserviamo soltanto contenuti che confermano i nostri pensieri.

Secondo quanto detto dall’assistant professor in media-studies della George Washington University Nikki Uscher Layser: «La comunicazione di massa diventa personale». La costruzione di sofisticati algoritmi fa sì che per avvantaggiare l’”esperienza” dell’utente venga meno la possibilità di un confronto con idee divergenti dalle proprie, svilendo il dialogo. Non fa eccezione quanto successo all’interno del dibattito presidenziale, dove la percezione di ogni schieramento di avere in pugno il risultato della campagna era dovuto ad un difetto “genetico” della piattaforma social dove era ospitata: per i democratici doveva vincere Hillary, Donald per i repubblicani. E i social non si identificano più nello spazio dove ognuno può esprimere la propria opinione, bensì dove ognuno può trovare conforto nel sentire la propria opinione giustificata all’infinito.