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ORA DI DOTTRINA / 104 – La trascrizione

Origine del male morale – Il testo del video

Il male è l’assenza di una perfezione richiesta in una determinata natura. Il male morale è una specie particolare di male che, come ogni male, implica una deficienza. L’atto umano va conformato a ragione e legge divina.

Catechismo 18_02_2024

Oggi iniziamo il capitolo sul peccato in generale. Abbiamo dedicato tre incontri al peccato originale, alle sue caratteristiche, che cos’è stato, come si trasmette e cosa provoca.

Adesso cerchiamo di capire che cos’è il peccato come atto. Chiaramente il peccato di Adamo è stato un atto, mentre il peccato originale che ereditiamo non è un atto nostro; e tuttavia siamo più che abili a porre noi stessi degli atti cattivi che appunto chiamiamo peccato. Dobbiamo capire dunque che cos’è il peccato.

Oggi cerchiamo di capire l’origine del male morale. Innanzitutto, cosa intendiamo quando parliamo di male? Intendiamo propriamente l’assenza di una perfezione che era richiesta in qualcosa, in una determinata natura. Per esempio, non vedere non è un male se lo considero in riferimento a un albero, è un semplice limite della natura propria dell’albero. Ma il non vedere, in riferimento alla natura umana, alla persona umana, lo definiamo un male. Perché è un male? Perché è la privazione di qualcosa che doveva esserci e che invece non c’è.

Dunque, il concetto di male richiama quell’idea di privazione di cui abbiamo già parlato: non è un semplice limite e non è una semplice assenza di qualcosa. Non avere le ali non è un male per l’uomo. Per un uccello, un’ala tranciata è un male, in quanto la sua natura richiede quella perfezione. Questo comporta che il male non ha un’essenza propria, cioè non ha una natura positiva: in sostanza il male non è qualcosa, ma è sempre la mancanza di qualcosa. Qualcosa dovuto a una certa natura, all’integrità di quella natura.

Secondo: il male, in quanto non è propriamente qualcosa, è in un soggetto, è in qualcosa, è in qualcuno: appunto, non avere le ali in un uccello; non esiste il non avere le ali da solo, senza un soggetto, a cui quella privazione inerisce.

Terzo: la causa di un male non è propriamente una causa efficiente, qualcosa che si fa positivamente, ma una causa deficiente, cioè una causa che pone in essere qualcosa di non integro, non nella sua perfezione propria. Questo è molto importante per il discorso che andremo a fare, perché a noi non interessa il male in generale, ma il male morale.

Il male morale è una specie di male, che ha una sua caratteristica, ma è pur sempre un male, e dunque ha le caratteristiche proprie del male, cioè la mancanza di un’integrità dovuta alla perfezione di qualcosa, di un atto, di un soggetto. Questo è il male. Dunque, non è una semplice assenza, ma è una deficienza. Quindi è sempre in un soggetto e la sua causa è sempre una causa deficiente e non efficiente, cioè è una causa che non raggiunge l’adeguatezza del proprio atto. Qui ho già suggerito quello che è il senso del male morale.

Prima di capire che cos’è il male morale, dobbiamo però capire che cos’è un atto morale. Classicamente si fa questa distinzione tra gli atti dell’uomo e gli atti umani. Questa distinzione non è difficile da capire. Gli atti dell’uomo sono tutti gli atti che riguardano l’essere umano, ma che non procedono per loro natura dalla ragione e dalla volontà dell’uomo, cioè prescindono da queste due dimensioni: sono dell’uomo, che è sempre un essere razionale, libero, ma non procedono dalla ragione e dalla volontà. Per esempio, tutto quello che concerne la nostra vita vegetativa: la circolazione del sangue, il battito cardiaco, la digestione sono atti dell’uomo, ma non sono atti umani nel senso che non procedono dalla ragione e dalla volontà. Tutti i movimenti potremmo dire spontanei sono atti che non nascono da ragione e volontà. Anche gli atti di un folle, di una persona che ha completamente perso il senno, sono atti dell’uomo ma non sono propriamente atti umani.

Che cos’è allora l’atto umano? Chiaramente l’atto umano è quell’atto, quella serie di atti che procedono non solo dall’uomo, ma dalla sua volontà e dalla sua ragione. Dunque l’atto umano, per definizione, è un atto responsabile, cioè un atto di cui l’uomo risponde in quanto atto libero. Ora chiariamo che cosa intendiamo per atto libero.

Quando parliamo di atto libero, questa è una precisazione importante, intendiamo quella capacità che l’uomo ha di regolare, dirigere, orientare le proprie azioni. Non intendiamo un atto libero, in senso assoluto, da ogni condizionamento interno ed esterno. Perché un atto di questo tipo, totalmente libero, non condizionato da nulla, nella natura umana concreta, per come noi la sperimentiamo, soprattutto dopo la caduta, non c’è: abbiamo sempre dei condizionamenti.

Ritenere che questi condizionamenti rendano degli atti non responsabili è un errore enorme. L’atto non è responsabile quando in nessun modo procede da ragione e volontà e, dunque, quando c’è una tale condizione della persona per cui essa agisce senza la possibilità di dirigere i propri atti, come il folle; oppure nel caso di un’ignoranza invincibile, cioè una persona che non ha potuto sapere una cosa importante e determinante per dirigere un atto, non l’ha potuta sapere pur avendola cercata: non avendo conosciuto un determinato aspetto, la sua scelta resta non propriamente libera, perché mancava la conoscenza. È una ignoranza invincibile, cioè – ripetiamo – una ignoranza che non nasce da una nostra mancanza o negligenza.

Ora, quando parliamo di atto morale ci riferiamo all’atto umano, non al semplice atto dell’uomo. Adesso uniamo questi due aspetti: il “male” e il “morale”. Se parliamo del semplice male nell’atto dell’uomo, e non nell’atto umano, esso non è un male morale: è un male che si valuta col principio di qualcosa che ha funzionato o non ha funzionato. Per esempio, nella generazione umana, che il risultato sia un bambino sano oppure un bambino che abbia delle deficienze, non dipende propriamente dall’atto morale, ma dipende da un atto della natura umana che ha un suo seguito.

Quando invece parliamo di atto umano, parliamo di atto morale e dunque responsabile. Che cos’è un male morale, quindi un male dell’atto umano? È una mancanza della sua integrità, così torniamo alla definizione originaria di male. Questo atto non è integro, è deficiente, ha una deficienza. Ma che cos’è l’integrità di un atto umano? È la sua conformità alla ragione, essendo l’uomo un essere di natura razionale. Dunque, quando un atto umano non è a misura della sua natura razionale, ecco che è un atto deficiente e quindi un atto moralmente cattivo.

L’uomo ha una caratteristica propria nella creazione, cioè non può fare altro che considerare un atto in rapporto alla sua conformità a un ordine di ragione, a una regola di ragione, a una ragionevolezza dell’atto e della legge divina. Perché questa duplice sottolineatura? Ritorniamo a quello che abbiamo detto sullo stato originario (vedi qui, qui e qui). L’uomo ha molti fini intermedi, ma un unico fine ultimo, quello della visione beatifica di Dio. L’uomo, da quando è creato, è desiderio di Dio, è in relazione con Dio, non può prescindere da Lui. Il suo rapporto con Dio non è qualcosa di “aggiunto”, di buono, ma superfluo: è qualcosa di costitutivo dell’uomo. E, dunque, che l’uomo agisca secondo la sua natura ragionevole significa da un lato che compie degli atti secondo un ordine di ragione; ma in questo ordine di ragione c’è anche un’apertura alla legge divina, la legge che Dio ha dato agli uomini nella legge di natura e nella legge rivelata. Questo è molto importante: non sono due aspetti da scindere; il rischio è quello di pensare al male morale o come un male solo ed esclusivamente di ragione, escludendo quindi la dimensione della legge divina, oppure dall’altra parte di pensarlo solo in relazione alla legge divina, escludendo la sua dimensione di razionalità. Invece i due aspetti vanno tenuti insieme, essendo l’uomo una natura razionale chiamata all’elevazione per porsi in relazione con Dio e per poterlo poi vedere e godere nella visione beatifica.

Quando parliamo della conformità alla ragione, a un ordine di ragione, lo intendiamo sotto tre aspetti, che sono i tre aspetti costitutivi dell’azione morale, che avremo modo di vedere più in dettaglio, ma intanto li teniamo presenti.

1) L’oggetto, che non è una cosa materiale, ma è un oggetto inteso come atto; quindi l’atto stesso deve essere conforme. 2) Il fine, che colui che agisce pone nell’atto, deve essere conforme. 3) Le circostanze devono essere conformi. Intanto li elenchiamo, poi andremo a vedere un po’ meglio questi tre aspetti la prossima volta.

È importante intanto tenere presente che questa conformità all’ordine di ragione, alla regola di ragione, non è qualcosa che l’uomo ha per natura. In che senso? Non è che ogni volta che agisce, l’uomo, essendo di natura razionale, agisce secondo ragione. Capiamo che a questo punto il problema del male morale non esisterebbe più. “È sufficiente che l’uomo agisca e l’uomo, in quanto agisce, agisce secondo ragione”: non è così.

Dunque, non è una conformità che l’uomo ha per natura, ma è una conformità che l’uomo ha per conformazione. Che cosa vuol dire? Vuol dire che secondo la sua natura, l’uomo deve dirigere il suo atto verso questo ordine: non è automatico l’atto che viene dall’uomo, l’atto umano, e la sua conformità. Perché la natura stessa dell’uomo richiede che, essendo egli libero, essendo dotato di ragione e volontà, egli stesso orienti i propri atti. Non è lui a costituire l’ordine, ma scopre l’ordine, coglie l’ordine, in modi diversi: con la ragione naturale e attraverso la Rivelazione. Coglie l’ordine, ma non lo costituisce. A lui compete – e qui c’è tutta la sua responsabilità, quindi tutto il suo merito o demerito – conformare i propri atti a questo ordine. È un aspetto molto importante che adesso andremo nuovamente a sottolineare leggendo un testo di san Tommaso.

L’uomo, dunque, può conformare o non conformare i propri atti secondo questa regola, questo ordine di ragione, questa conformità. C’è una quæstio, la prima, del De Malo, che è un’opera molto interessante di san Tommaso, che spiega un po’ meglio questo aspetto. Nell’ultima parte dell’art. 3 di questa quæstio, san Tommaso dice che il punto decisivo è questo: «Si presuppone nella volontà il non servirsi della regola della ragione e della legge divina prima della scelta disordinata». Dunque, questo atto morale, questo atto cattivo, questo male morale, è il non servirsi della regola della ragione e della legge divina: san Tommaso, come vediamo, menziona entrambe, ragione e legge divina. Quando? Prima della scelta disordinata. Diventa disordinata precisamente perché non tiene conto di questo ordine.

Prosegue san Tommaso: «Di questo non far uso della predetta regola non bisogna cercare qualche causa poiché a ciò è sufficiente la libertà della volontà, per mezzo della quale essa può agire o non agire». È in potere della volontà, della libertà dell’uomo avvalersi, far riferimento o non far riferimento a questa regola della propria azione. «E il fatto di non tener presente in atto tale regola, considerato in sé, non è un male né una colpa né una pena, poiché l’anima non è tenuta né può considerare sempre in atto una tale regola». Cioè, non è che sempre ci deve essere questa regola. Ma deve esserci quando? Quando uno passa all’azione. Infatti, san Tommaso dice che «la scelta comincia ad acquistare, per primo, natura di colpa dal fatto che, senza tener presente in atto la regola, la volontà procede a una scelta del genere» E fa un esempio: «come l’artigiano non pecca per il fatto che non si attiene sempre alle misure, ma per il fatto che si mette a tagliare senza attenersi alle misure». Cioè, quando io passo all’atto, alla scelta è lì che mi devo avvalere delle misure, come l’artigiano; in generale, della misura della ragione nell’atto umano, nell’atto morale.

Aggiunge san Tommaso: «E similmente la colpa della volontà non sta nel fatto che non considera in atto la regola della ragione e della legge divina, ma nel fatto che procede alla scelta senza avere una tale regola o misura. Ecco perché Agostino, nell’XI libro della Città di Dio, dice che la “volontà è causa del peccato in quanto è deficiente”». È quello che accennavo prima. Adesso si capisce meglio. Come dicevo, il male non ha bisogno di una causa efficiente, ma di una causa deficiente: dov’è il difetto in questo caso? È il fatto che, mentre faccio una scelta, mentre pongo in atto una scelta, ci dice Tommaso, non tengo conto della regola della ragione e della legge divina, delle quali invece sono tenuto a tener conto, sono chiamato a prendere in considerazione e a conformare il mio atto a questa regola, a questa legge divina.

Il non farlo che cosa comporta? Comporta un difetto, cioè il mio atto resta al di sotto di un atto propriamente umano, di un atto integro la cui scelta è orientata secondo un ordine di ragione e di legge divina. Si capisce che siamo lontani mille miglia da quella idea per cui la scelta si giustifica da sé, la scelta si giustifica per il solo fatto che è posta in essere, oppure per il solo fatto che è posta liberamente in essere: siamo in un’altra prospettiva, opposta.

San Tommaso, oltre che basarsi sulla nostra fede, tiene un approccio di tipo realista. Perché realista? Perché tiene conto della nostra natura. Non c’è una necessità di natura per cui a ogni nostro atto corrisponde un atto buono, qualunque sia, basta che nasca da noi… la nostra natura è limitata, non essendo noi Dio: solo in Dio ogni atto compiuto è buono. Nel nostro caso dobbiamo conformarci alla regola della ragione e della legge divina; e non tenere presente questa regola indica un difetto nell’integrità dell’atto e dunque un male morale. È chiaro che così tutto torna.

Un altro passo importante nell’art. 3 del De Malo è la risposta alla tredicesima obiezione. San Tommaso scrive: «La deficienza, che si presuppone nella volontà prima del peccato, non è una colpa né una pena, bensì una pura negazione». Cioè, se io non sto sempre a pensare alla regola dell’azione quando non devo agire e non devo scegliere, non c’è problema in sostanza. «Però acquista natura di colpa per il fatto stesso che la volontà passa all’azione con questa negazione, infatti per la stessa applicazione all’azione diventa dovuto quel bene di cui è priva, cioè prestare attenzione in atto alla regola dell’azione e della legge divina». Cioè, prestare attenzione nel momento della nostra scelta, nel momento in cui poniamo la nostra scelta, alla regola dell’azione, alla regola della ragione e alla legge divina, è richiesto da che cosa? Dalla perfezione dell’atto umano. È, dice san Tommaso, quel bene proprio dell’atto umano.

Dunque, vediamo come il male morale, questo non porsi come misura questa regola “a due volti” – ossia la conformazione alla ragione e alla legge divina –, è una deficienza a una perfezione dovuta. E dunque è un male morale. Perché è un male morale? Perché l’atto è un atto umano, è un atto morale. La deficienza nell’atto morale, quindi nell’atto umano, è il male morale, perché è il male dell’atto morale dell’uomo.

Ora, attenzione a un ulteriore passaggio. Non abbiamo ancora parlato di peccato. Il peccato si basa su questo fondamento che ho appena descritto, non è un’altra cosa. Il peccato ha la sua parte costitutiva proprio in questo disordine, in questa deficienza. Ma il concetto di peccato aggiunge un aspetto ulteriore al male morale, ossia quel suo essere in opposizione non solamente alla ragione, quindi all’integrità dell’atto umano, ma anche offesa a Dio. Bisogna capire bene questa cosa, che non è una cosa in più, solo per i devoti: cioè, non è che solo i devoti pecchino, no.

Allora, classicamente si definisce il peccato come dictum, factum vel concupitum, cioè qualcosa di detto, compiuto o desiderato, contra legem æternam. Contra legem æternam significa contro Dio stesso. Perché? Perché non è una legge determinata, impersonale, che io infrango, come un codice della strada, posto da non si sa chi: la legge eterna è Dio stesso. Perché? Perché è il frutto di quell’azione sapiente e amorevole di Dio nella creazione. Quindi, questo andare contro la legge eterna significa non riconoscere più che essa è espressione di questa sapienza, di questo amore. Questo è importantissimo.

Allora si capisce perché Gesù, nel Vangelo di san Giovanni, dice: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti» (cfr. Gv 14,21). Cioè, amare Cristo significa che noi riconosciamo che tutto quello che proviene da Lui è buono, è giusto, è santo, è vero. E la stessa cosa vale evidentemente per Dio: Cristo è la seconda Persona della Santissima Trinità fatta carne. Dunque, questo andare contro la legge eterna non è un infrangere una regola asettica, ma è precisamente un dire: “Questa regola, che tu mi hai dato, non è né buona, né vera, né saggia”. Allora capiamo perché l’osservanza dei comandi, che provengono dalla ragione umana e dalla legge divina, è costitutiva per l’amore di Dio. Non esiste una divaricazione o addirittura una scissione tra l’osservanza dei comandamenti e l’amore di Dio. Tutto quel parlare del tipo “ma no, chi sta sempre a guardare la norma divina, non considera l’amore di Dio, è un formalista”, è completamente sballato. Perché la legge eterna è Dio stesso, che ha posto e ordinato queste cose nella sua sapienza e nel suo amore. È molto importante questo aspetto per non deviare dietro ad apparenti ragionamenti. È chiaro che nessuno di noi ritiene che la propria natura sia di obbedire a delle regole e punto. E nessuno di noi ritiene che il rapporto con Dio sia, come dire, un codice. Ma se noi comprendiamo che la legge eterna è Dio stesso, è Dio stesso nel suo amore, nella sua sapienza, allora questa dicotomia si risolve: per noi amare Dio e osservare i suoi comandamenti sono i due lati della stessa medaglia.

Faccio una piccola precisazione. Non solo il non osservare questa legge eterna, che è Dio stesso, è un’ingiuria all’amore di Dio, ma anche il non volerla conoscere, cioè quella negligenza colpevole che noi abbiamo quando non ci interessiamo all’ordine che Dio ha posto nelle cose, perché a noi non interessa, facciamo da noi: questo tipo di ragionamento è già ingiurioso verso Dio. E dunque tutti gli atti che ne derivano, che possono essere atti che derivano da questa ignoranza, acquistano la malizia di questa ignoranza, perché questa ignoranza è colpevole. Noi siamo tenuti, siamo chiamati a conoscere questo ordine di ragione e questa legge divina, che insieme chiamiamo “legge eterna”, precisamente perché noi siamo fatti in questo modo, cioè la bontà della nostra azione è questa conformazione.

Interessante è l’art. 6 della quæstio 48, nella prima parte della Somma Teologica. San Tommaso specifica: «Il male della colpa si oppone direttamente al bene increato in se stesso e non soltanto in quanto partecipato dalle creature» (I, q. 48, a. 6). Non sta dicendo, attenzione, che il peccato è il fatto che io voglia oppormi a Dio esplicitamente, in una sorta di sfida agli dei: non è questo, dice il contrario. Dice che nel momento in cui io mi oppongo a quel bene partecipato dalle creature, mi oppongo al bene increato, che è un altro modo per dire quello che dicevo prima. Quando io mi oppongo alla legge eterna, nella sua conformità alla regola della ragione e alla legge divina, io mi oppongo all’Autore di questa legge; quando mi oppongo al bene partecipato, io mi oppongo al bene increato. È importantissimo tenere presente questa correlazione, perché altrimenti ci facciamo portar via da queste mode della morale che accusano questa impostazione di moralismo, ma che in realtà sono esse stesse moraliste, perché non comprendono che questa struttura morale che vi ho detto viene da Dio. E dunque infrangere, andare contro questo vuol dire andare contro Dio stesso, l’Autore di tutto questo.

Abbiamo messo tanta carne al fuoco, ma sono le basi per il discorso che poi andremo a sviluppare più propriamente su quel male morale che è il peccato.

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