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L'INTERVISTA

Pillitteri: "Chi doveva prevenire ha scelto di non vedere"

Martino Pillitteri, corrispondente del sito Vita International da Bruxelles, spiega a La Nuova Bussola Quotidiana come la città ha vissuto il suo giorno nero degli attentati. E come la minaccia islamista si sia formata nel corso dei decenni, ignorata dalle autorità nel nome di un fallimentare progetto di integrazione a Molenbeek.

Esteri 23_03_2016
Strade blindate alla stazione di Maalbeek

Bruxelles è passata dalla pace alla guerra in un lampo. Una giornata iniziata come tante altre, nell’ora di punta della mattina, si è trasformata in tragedia. Martino Pillitteri, corrispondente del sito Vita International, vive a Bruxelles ed era in metropolitana quando l’attacco è iniziato. Per ironia della sorte, aveva intenzione di seguire la conferenza del Gran Muftì dell’Egitto. L’esponente religioso egiziano avrebbe dovuto parlare contemporaneamente a un altro evento, quello di Gilles de Kerchove, il coordinatore anti-terrorismo dell’Ue. Il terrorismo e lo jihadismo del Medio Oriente si sono manifestati in tutta la loro forza distruttrice poche ore prima, dal vivo.

La Nuova Bussola Quotidiana ha contattato telefonicamente Pillitteri. “Le forze dell’ordine sono subito intervenute, bloccando le principali vie del centro – ci spiega – addirittura nella strada in cui si trova il mio ufficio non lasciavano passare nemmeno i pedoni. Ho dovuto mostrare ai poliziotti che lavoravo lì, altrimenti non mi avrebbero fatto entrare. Il senso di spavento che ha colto tutti è stato indotto, soprattutto, dalla presenza massiccia delle forze dell’ordine, che hanno letteralmente preso possesso del centro della città. Verso le 18, tutte le barriere sono scomparse, a parte quelle attorno alla stazione di Maalbeek (quella colpita) e alle stazioni ferroviarie Gare de Midi e Gare du Nord”.

Come è stato vissuto il momento dell’attentato?

La zona in cui vivo è detta la “bolla”, un’area di istituzioni separata dal mondo reale. Le persone che lavorano qui, appartenenti alla classe medio-alta, colta e istituzionale, sono consapevoli dei rischi. Non ho mai letto panico nei loro occhi. In generale, contrariamente a quel che ho letto sui giornali, non ho mai visto paura. La città ha reagito con estrema dignità e compostezza, anche nei pressi della stazione della metropolitana colpita.

Nei mesi trascorsi, da quando erano state condotte le prime operazioni antiterrorismo a novembre, si avvertiva il pericolo nell’aria?

No. Anche la presenza della polizia e dell’esercito era entrata a far parte della quotidianità. A novembre ci si accorgeva del clima di assedio e si era indotti anche a far brutti pensieri (pensieri come: “se ci sono i militari in giro, vuol dire che il pericolo c’è”), col passare delle settimane e dei mesi, ci eravamo assuefatti alle misure di sicurezza. La presenza di così tante forze dell’ordine era intesa come un duplice messaggio: un deterrente nei confronti dei terroristi e una rassicurazione nei nostri confronti. Ma questi attentati hanno dimostrato che la sicurezza sia un concetto molto relativo. Nonostante la presenza dei soldati, i terroristi sono riusciti a infiltrarsi in due obiettivi chiave, con estrema facilità. Ma d’altronde, adesso, anche aumentare il numero dei militari non servirebbe a nulla: o controlli tutti i cittadini, uno per uno, all’entrata di metro, centri commerciali, ristoranti, locali pubblici (cosa che è impossibile), altrimenti il rischio resta.

L’arresto di Salah Abdeslam era stato avvertito come un pericolo dalla gente?

No. La vita scorreva tranquilla, come sempre. E poi non dobbiamo affatto dar per scontato che gli attentati di martedì siano da intendere come una vendetta per il suo arresto. Anzi, sono propenso a pensare che non lo siano. Abbiamo a che fare con terroristi privi di coscienza, veramente pronti a tutto. E’ un terrorismo che agisce in base a logiche sue, che non siamo in grado di interpretare, né di anticipare.

Durante l’arresto di Salah, si è constatato quanto fosse protetto nel quartiere di Molenbeek, a maggioranza musulmana. Come si vive a fianco di una vera e propria roccaforte islamista?

I brussellesi non si confidano molto, su questo tema. Molenbeek è considerato un mondo a parte. Sembra quasi che gli altri 18 comuni (Bruxelles è suddivisa in 19 comuni, ndr) l’abbiano escluso dalla città, l’abbiano isolato. Adesso si è palesato quel che si pensava e temeva da tanto tempo e la colpa è di chi ha fatto finta di non vedere per anni e anni.

Ma come si è venuta a creare una realtà separata come Molenbeek?

Non è certo un fenomeno degli ultimi mesi, dura da almeno 24 anni. Philippe Moureax, sindaco socialista del comune di Molenbeek dal 1992 al 2012, aveva percepito i trend demografici. Fece così passare un regolamento comunale con cui dava il voto agli immigrati, anche quelli non residenti. Chiaramente, in questo modo, ha rinnovato il suo mandato per vent’anni di fila. Ha stretto un patto silenzioso con le comunità islamiche: voi islamizzate pure la vostra area, io vi lascio fare, l’importante è che mi diate il voto. Questo processo di islamizzazione è evidentemente andato fuori controllo. Chi doveva contrastare il fenomeno ha chiuso un occhio. Non mancavano gli allarmi: c’erano residenti che segnalavano puntualmente la radicalizzazione di certi ambienti, ma sindaco, giunta e polizia se ne sono lavati le mani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Che cosa spinge un residente in Belgio, nel cuore d'Europa, ad abbracciare il jihadismo?

Non credo alla tesi della ghettizzazione, della discriminazione, non credo che le terze generazioni di immigrati arabi e magrebini siano spinte alla radicalizzazione dalla povertà, dall’ignoranza, o dalla politica dell’Occidente “cattivo”, dall’aumento della disuguaglianza fra ricchi e poveri, o dall’odio per i dittatori nel Medio Oriente. Niente di tutto questo: essere radicali islamici è soprattutto uno stile di vita. E’ una scelta indipendente dalla condizione sociale, o dal grado di istruzione. E’ una scelta personale che non ha nulla a che fare con il mondo esterno. Finché non si accetta questa realtà, continueremo a perdere tempo cercando colpe in noi stessi. Ma non è vero che la loro violenza sia colpa nostra: questa è la più grande menzogna della nostra generazione.